
(foto Ansa)
nord-est inquieto
“Se nomini Vannacci in segreteria ti molliamo”, così i veneti a Salvini
L’idea del segretario che vorrebbe fare del generale il suo quarto vice, spaventa gli uomini di Zaia: sarebbe un certificato di sovranismo, dunque una scure sull’autonomia. A quel punto, prenderebbe quota la rottura col Carroccio proprio in vista delle regionali
Venezia. Altro che pax leghista. Dietro i proclami, le mozioni dei vertici, le raccolte firme ai gazebo, la base del Veneto tende la trappola. L’ultimatum: se il prossimo congresso federale partorirà eresie rispetto alla storia del partito – Vannacci vicesegretario, “Maria vergine che brutta fine” – allora raus, via tutti. Meglio soli che mal accompagnati. Soprattutto in vista delle regionali, dove la Liga non ha alcuna intenzione di perdere la faccia – visto che il simbolo è sotto l’egida di Salvini: questione da sbrogliare in campagna elettorale. Se rottura sarà davvero.
Ma nel cuore della regione di Zaia, stavolta sono sicuri. Passino le tattiche, le esigenze di percorso con cedimento a destra già sgraditissime a queste latitudini: stravolgere però l’essenza della Lega nel suo momento assembleare più importante, mettendo perfino a rischio lo statuto, significherebbe svuotarsi di ogni significato politico. Perché la stessa mozione Stefani – prima il nord e federalismo – rappresenta l’esatto contrario di quel che propugna il generale della Folgore. Nessuno nel nordest osa dimenticarsi che Vannacci si è detto contrario all’autonomia, o nel migliore dei casi non interessato. Un abominio. Come fa a convivere con Zaia e Fedriga? Il Carroccio è sempre stato un contenitore spurio, in grado di ospitare anche grandi contraddizioni al suo interno. Ma mai sui valori fondanti: se dunque dovesse diventare a tutti gli effetti, in sede congressuale, un partito di estrema destra, nazionalista e sovranista, sarebbe allora inconciliabile con qualunque progetto autonomista. E l’impossibile conciliazione delle antitesi, ragionano i militanti, non porterebbe a una sintesi ma anzi all’annullamento del partito stesso. Proprio quando i suoi sostenitori chiedono a gran voce una sempre più chiara svolta identitaria. Verso le origini, però.
Di colpo in Veneto se ne sono accorti tutti, anche se qualcuno – a partire da Roberto Marcato, assessore ostile ai pastrocchi fascio-patriottici che infatuano Salvini – lo va ripetendo da anni. L’eventuale svolta andrebbe poi spiegata ai leghisti stessi, ben oltre il Veneto, perché la mozione di Stefani – vice di Salvini, repetita iuvant – dice esattamente questo: senza identità non si va da nessuna parte. E aggiungere un quarto vicesegretario federale sarebbe invece un segnale di caotica ammucchiata, senza scomodare la figura di Vannacci – che in tutto il nordest riunisce sì e no un vaporetto di sparuti fanatici. Fin qui gli uomini di Zaia non hanno avuto l’ardore di rompere con Via Bellerio, ma la due giorni di Firenze sarà un punto di non ritorno.
A partire dai numeri. Sempre in apparenza, sembra che Salvini si sia garantito la stragrande maggioranza dei delegati veneti. Il quadro in realtà è molto più frammentato: dei 67 eletti verso il congresso, i lealisti sarebbero soltanto la metà. Gli altri farebbero parte della corrente di Marcato. 12 a Padova, 9 a Vicenza, 8 a Treviso. Più gli istituzionali: consiglieri, amministratori locali. Lo stesso Marcato sarà l’unico assessore presente – ma senza diritto di voto, proprio per la carica che ricopre. L’armata venetista è pronta così a prendere appunti. E a prendere atto. Cosa succederà in caso di ulteriore apertura all’ultradestra? Ecco una forza politica indipendente: post-ideologica e antifascista, fortemente territoriale e in convinto dialogo con Bruxelles (del piano pan-federale per l’Italia e l’Unione europea ci aveva raccontato Marzio Favero). Correrebbe alle regionali da sola, insieme ad altre liste civiche: difficilmente si potrà continuare a chiamare Liga veneta, salvo battaglie legali per nome e marchio. Ma questo è l’ultimo dei problemi. Il primo, che torce le budella di Marcato e compagni, è quello di dire addio alla propria casa politica dopo oltre trent’anni di militanza. Eppure sarebbe l’unica soluzione credibile: più che il mondo, al contrario sta finendo la Lega.