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Il ritratto
Maurizio Lupi, il maratoneta del centrismo
Da 24 anni si muove a Montecitorio da cattolico moderato e liberale. La possibile corsa a sindaco di Milano, la ricerca dei voti per un progetto politico, i buoni rapporti con la sinistra e con Meloni. Ritratto del leader di Noi moderati
Non lo hanno visto arrivare, ma lo hanno visto restare. Da tempo, perché è precisamente dal 2001 che Maurizio Lupi – leader di Noi moderati, già parlamentare berlusconiano nei tempi d’oro del berlusconismo, già ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti nei governi Letta e Renzi – siede in Parlamento con la flemma, il passo costante e la determinazione del Lupi maratoneta, l’altra faccia del Lupi politico.
Si dà il caso, infatti, che l’ex ministro, ogni mattina, caschi il mondo, si alzi e scenda ad allenarsi a Villa Borghese, onde mantenere, e se possibile migliorare, il record personale di 3h 45’4’’, bottino di una delle quindici maratone di New York a cui ha partecipato, con o senza la compagnia dei colleghi corridori del “Montecitorio running club” da lui fondato, club in cui militano sportivamente e in trasversale divisa, tra gli altri, Marco Osnato (FdI), Stefano Patuanelli (M5s), Roberto Pella (FI), Paola De Micheli (Pd), Enrico Costa (ora FI, prima Azione) e Andrea Casu (Pd). Non c’è Matteo Renzi, con Lupi, nel gruppo dei corridori trasversali parlamentari più stretti (l’ex premier si allena lungo il Tevere), anche se l’ex premier è presente (come Carlo Calenda) al di là dello specchio invisibile che divide centrista da centrista, lungo i confini tra maggioranza e opposizione. E insomma lui, Maurizio Lupi, da 24 anni si muove a Montecitorio da cattolico moderato e liberale – non importa se il panorama tutt’attorno cambia. Lupi c’è (ed è stato anche vicepresindente della Camera), e Lupi si allena non soltanto a percorrere i quarantadue e passa chilometri tra Central Park, il Village, Harlem, il Bronx e Staten Island, ma anche a coprire la distanza impalpabile che separa un cattolico moderato da un altro cattolico moderato, a partire dall’avversione o propensione per l’idea di un partito confessionale.
Non è quello che vuole Lupi, il partito confessionale. Né è suo pane la guerra culturale. Anzi. Lupi, mentre riflette sulla teoria alla base dell’azione politica, dialoga di giustizia con il ministro Carlo Nordio, da un lato, e i penalisti, come all’evento da lui officiato qualche giorno fa, e intanto ragiona in direzione di un vero e proprio manifesto dei cattolici liberali. L’ha detto, a inizio marzo, al convegno organizzato dall’associazione Centro Popolare, davanti alle parlamentari ed ex ministre dallo stesso passato berlusconiano Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, percorrendo con l’eloquio le praterie che potrebbero aprirsi da quando “la sinistra ha rinunciato ai cattolici”. Così diceva Lupi, e non importa se, in questo periodo, a sinistra tra i cattolici si resta quasi quasi con un parterre di posti in piedi: ci sono infatti, in prima linea, l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini e diverse gradazioni di post prodiani, a partire proprio dall’ex premier Romano Prodi, e ci sono Pierluigi Castagnetti e Graziano Delrio, e c’è molto interesse per questo tipo di cattolicesimo ulivista-dem anche presso l’area per autodefinizione socialista del Pd romano, Goffredo Bettini in testa.
Tutt’altro cattolicesimo, dunque, quello che ha in mente Lupi – che, non da oggi, si colloca al centro del centro con azione centripeta, senza preclusioni e con tutt’altro gruppo di partenza (c’è anche l’altro ex ministro berlusconiano di estrazione socialista Maurizio Sacconi): “concretezza”, è la parole d’ordine del progetto, cioè non fuffa teorica ma leggi e provvedimenti in carne e ossa per, dice Lupi, superare l’idea “del contributo dei cattolici in politica” e “fare un passo in più” per “lasciare una impronta: l’impronta è ciò che lascia un segno. Il nostro compito è lasciare un segno nella costruzione di qualcosa”. Pare facile, e infatti non lo è, presi come si è, in Italia, dagli opposti estremismi e opposti populismi e sovranismi, tra Donald Trump, Elon Musk, Matteo Salvini, Roberto Vannacci, da un lato, e Giuseppe Conte e le aree rossobruno del centrosinistra dall’altra (citofonare per esempio a Marco Rizzo).
Non schiacciamoci sulla cultura woke, diceva Gelmini all’evento del Centro popolare, “ripartiamo dalle radici cristiane dell’Europa”; “il pragmatismo dei cattolici liberali è l’unica vera alternativa in questi tempi difficili alla politica guerreggiata di chi delegittima e aggredisce l’avversario soltanto per ricavarne un consenso elettorale”, diceva Carfagna. E Lupi, alle due ex ministre tornate con lunghi giri nel suo stesso alveo politico, con l’ingresso in Noi Moderati dopo l’esperienza in Azione, ripeteva che “la sfida è nel dialogo e nell’ascolto”, e che “il dialogo è possibile solo partendo da identità forti”. Pare facile, e infatti non lo è neanche questo. E intanto è sempre Lupi – nel giorno in cui l’ex premier Mario Draghi torna nel Senato in cui tutto precipitò nell’estate del 2022, ma con in mano il suo report europeo mentre su riarmo e difesa Ue va in scena il gioco delle parti maggioranza-opposizione – a sottolineare, dal centro del centrodestra, e con sguardo oltreconfine a quelli che, nelle formazioni riformiste a sinistra, in fondo la pensano come lui, l’“attualità” dell’ex premier nel proporre “soluzioni alle sfide estremamente complesse che l’Europa ha davanti”. La difesa Ue, dice Lupi nel centrodestra diviso sul tema come il centrosinistra, “è da intendersi non come solo riarmo, termine ambiguo che apre a strumentalizzazioni, ma come necessità di investire anche e soprattutto in infrastrutture tecnologiche per la sicurezza, per la cybersicurezza”.
Fatto sta che lui, Lupi, aspirante federatore di cattolici liberali, ex ragazzo di periferia meneghina (quartiere di Baggio, dove vive tuttora con la famiglia quando non è a Roma), non è stato visto arrivare, da Roma, neanche come possibile candidato sindaco del centrodestra milanese e lombardo. E invece a lui si guarda, e non da oggi, dal centrodestra nordico, per il dopo Sala, anche se Lupi non conferma e non smentisce gli slanci in suo favore del presidente del Senato e colonna meloniana Ignazio La Russa, slanci che fanno da contraltare a quelli degli azzurri milanesi (tipo Alessandro Sorte) per Letizia Moratti. E intanto così risponde, il leader di Noi moderati, a chi gli si rivolga dicendo che il suo nome, non indagato, è comparso nelle intercettazioni sul “Salva Milano”: “Il Parlamento non fa le leggi sotto dettatura di nessuno, né di associazioni, né di professionisti, né di enti o istituzioni. Il Parlamento ascolta, prende atto delle proposte che arrivano da qualunque parte si fanno le leggi. Il mio gruppo ha votato convintamente l’interpretazione sul ‘Salva Milano’ perché ha ritenuto che la proposta poi arrivata in sintesi dal ministero delle Infrastrutture e dalla commissione fosse la proposta migliore non solo per Milano ma per tutta Italia. Tutto è avvenuto alla luce del sole. Credo che la magistratura faccia la sua parte, il Parlamento fa la sua. Ci sono dei vuoti normativi enormi, la Procura di Milano si è attaccata a una legge urbanistica della fine degli anni 40. Se si è creato questo equivoco vuol dire che c’era bisogno, come abbiamo ritenuto necessario, di una legge interpretativa al Senato e adesso il Senato deciderà che cosa fare”.
Ci vuole (ci vorrà?) tutta la resilienza del maratoneta che un tempo si allenava proprio lì, nel quartiere originario, al Parco delle Cave in quel di Baggio, per sondare davvero la disponibilità unitaria delle truppe meloniane, leghiste e post berlusconiane nell’eventuale corsa di Lupi a sindaco di Milano, e forse all’ex ministro toccherà tirare fuori un po’ di spirito self-made e un po’ di abilità di convincimento, gli atout messi alla prova nei lontani anni universitari (Università Cattolica di Milano), dove l’allora ragazzo Lupi, iscritto a Scienze politiche, indirizzo economico, famiglia umile ma solidamente lavoratrice alle spalle (padre muratore e madre operaia, origini abruzzesi), decide di fondare una cooperativa di servizi agli studenti (libri scontati e alloggi) per poi candidarsi a rappresentante dei medesimi. E’ il primo passo di una carriera politica condotta, fin dall’inizio, con passi felpati e regolari (altro che allenamento per New York): ecco Lupi proporsi nell’urna per diventare consigliere comunale per la Dc in anni in cui (’93-’94) il terrore di Tangentopoli rendeva l’ex Balena Bianca invisa ai giovani ambiziosi. Ma non a lui, che da lì parte per il viaggio che lo porterà all’oggi: nel ‘97 Lupi si presenta infatti con Forza Italia e diventa assessore all’Urbanistica nella prima giunta Albertini, con Paolo Del Debbio e Sergio Scalpelli come colleghi, in tempi in cui campi incolti ed ex parchi si fanno fondamenta di nuovi grattacieli per la nuova Milano.
E’ il primo embrione della città-Fenice, ex Milano da bere con in serbo un futuro luccicante: ancora non si vede, il futuro, in quegli anni, ancora Milano dovrà attraversare almeno un decennio di ombra, prima di risorgere e proiettarsi oltre, nel mondo trasversale e fieristico che la renderà grande. Di sicuro trasversale era già Lupi, via Comunione e Liberazione e via buoni rapporti con tutti, compresa l’archistar mito della sinistra intellettuale, Gae Aulenti. E trasversale sarà poi, Lupi, negli anni 2013-2014, da ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, nel governo di larghe intese guidato dal dem Enrico Letta, prima, e poi, dopo l’adesione al Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, nel governo Renzi (leggenda metropolitana vuole che la conferma di Lupi fosse stata per così dire consigliata a Renzi dall’allora presidente Giorgio Napolitano). Non per niente, Lupi è presidente dell’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà, che ha fondato insieme a Letta nel 2003. Tra le iniziative legislative dell’Interguppo, cui aderiscono esponenti di tutti i gruppi parlamentari, la legge che ha istituito il 5 per mille e (più di recente) quella che prevede la sperimentazione didattica nella scuola delle competenze non cognitive (non cognitive skills).
Ma il percorso trasversale a un certo punto si interrompe: nel 2015 Lupi si dimette, non indagato, sulla scia delle inchieste cosiddette “Grandi opere” e “Appaltopoli”, in cui si parlava di corruzione in ambienti attigui e lo si accusava di aver procurato incarichi di lavoro al figlio ingegnere. Nessun rinvio a giudizio come si diceva lo raggiunge o raggiungerà, ma Lupi lascia la poltrona di ministro con un discorso in cui rivendica “il ruolo decisivo della politica nella guida del paese”, e non, dice, per “difendersi da accuse” che non gli sono state rivolte: “Non invoco garantismo nei miei confronti perché non ho ricevuto alcun avviso di garanzia. Ciò che mi chiama qui oggi davanti a voi non è una responsabilità giudiziaria, ma una responsabilità politica per le scelte ‘politiche’ che ho fatto alla guida del ministero che mi è stato affidato”. In quell’occasione, il ministro dimissionario dice di aver assistito “a un prolungato scontro tra il giudizio e il pregiudizio”, e di voler dunque portare in Parlamento “la testimonianza testarda dei fatti”. Cita lo scrittore russo Michail Bulgakov: “Questo è il fatto – diceva Bulgakov ne ‘Il Maestro e Margherita’, e il fatto è la cosa più testarda del mondo… Mio figlio lavora in America, dove è approdato dopo che la società di ingegneria e architettura Som, al termine di uno stage di sei mesi, gli ha offerto l’assunzione… Di fronte alle polemiche italiane, dopo due giorni di telefonate e richieste di informazioni da parte di media italiani, la società americana ha emesso un comunicato stampa in cui ricostruisce la vicenda e spiega perché ha assunto mio figlio: perché lo considerano bravo”.
Lupi si dimette, dice, “a 72 ore dai fatti, non a 72 giorni”, nonostante la prima reazione degli amici e colleghi andasse in direzione del “non hai fatto nulla, perché devi lasciare proprio in un momento in cui il tuo lavoro sta iniziando a dare i suoi frutti?”. Ma la linea ormai è tracciata: “Con il passare delle ore”, dice Lupi, “la scelta che dovevo fare non poteva che essere paragonata con la ragione per cui ho deciso di fare politica. Siamo uomini politici, ma uomini è il sostantivo, la sostanza, politico è l’aggettivo, e l’uomo agisce sempre per uno scopo e per la politica lo scopo è servire il bene comune. Se questo passo indietro può essere un modo per prendere una nuova rincorsa, per ridare valore alle istituzioni che ho sempre servito, per rafforzare l’azione del governo, per rilanciare il progetto del nostro partito, allora le dimissioni hanno un senso”. E, scagliandosi contro le “demagogie a brandelli”, l’ormai ex ministro promette di continuare l’opera “dai banchi del Parlamento”. Dove, nel tempo libero, porta avanti anche la causa del Milan, da presidente del Milan Club Parlamento, pure quello trasversale: nel comitato direttivo siedono Paola Frassinetti (FdI), Lorenzo Guerini (Pd), Maria Elerna Boschi (Italia viva), Adriano Paroli (FI).
Ma li ha, i voti, Lupi? E se non li ha, dove li troverà, per procedere lungo il percorso “cattolici liberali”? La domanda sorge spontanea di fronte a passate percentuali dell’1 o 2 per cento, anche se remano a suo favore i suddetti buoni rapporti: con la sinistra, ma anche con la premier Giorgia Meloni, cui un equilibratore-equilibrista al centro della coalizione deve parere prezioso in tempi di sparate leghiste. E il leader di Noi moderati che nel weekend e d’estate si ricarica con moglie e figli nella tranquillità di Baggio o nel caos degli Stati Uniti (dove vive il terzo figlio), intanto mette nel suo pantheon Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi, sapendo di avere, nei sondaggi, un gradimento personale maggiore di quello delle formazioni che a lui via via si riferiscono: pontiere e pompiere, ambasciatore e traghettatore.
