Giorgia Meloni (LaPresse)

l'editoriale del direttore

Qualche stella brilla di meno: per Meloni la strada ora è in salita

Claudio Cerasa

Difesa dell’Ucraina, stabilità unica in Europa, rapporto con le imprese: la nuova stagione politica ha indebolito questi punti di forza. E l’essere argine al salvinismo e la prudenza sui conti sono importanti, ma nell’èra del trumpismo non bastano più 

E’inutile negarlo. Giorgia Meloni, da settimane, vive una fase politica difficile, complicata, scivolosa, e al centro delle sue problematiche vi è lo stesso leader che, teoricamente, avrebbe dovuto portare maggiore linfa alle destre mondiali, compresa quella italiana: Donald Trump. La direzione di Meloni, nonostante tutto, non si può dire che sia deficitaria e non si può dire, che seppur con mille difficoltà, il governo italiano abbia cambiato rotta, tradendo tutto ciò che di buono, a livello internazionale, aveva seminato prima dell’affermazione di Trump alla Casa Bianca. La questione, come si dice, è più sottile e riguarda il futuro delle  stelle fisse della costellazione meloniana. Fino a oggi, Meloni è riuscita a conquistare una sua credibilità, e una sua affidabilità, oltre che una sua popolarità, come dimostrano anche i sondaggi, e raramente ci sono stati capi di governo in grado di non perdere molto consenso dopo quasi tre anni a Palazzo Chigi, puntando su cinque fattori.

Il primo fattore, almeno fino a oggi, ha coinciso con la difesa senza sconti e senza titubanze e senza imbarazzo dell’Ucraina ed è stato attorno a questa difesa che Meloni è riuscita a entrare nelle grazie anche di quelle cancellerie internazionali che sulla premier italiana, visti i suoi trascorsi populisti e putiniani, avevano molti dubbi. Il secondo fattore, almeno fino a oggi, ha coinciso con la stabilità, con la capacità cioè dell’Italia di poter essere considerata in giro per l’Europa, e non solo lì, come un’oasi felice, come l’unico governo in grado di  proiettarsi nel tempo senza avere intoppi potenziali. Il terzo fattore, almeno fino a oggi, è stato la prudenza, l’affidabilità dei conti, la capacità di gestire il debito, di non assecondare gli istinti spendaccioni tipici dei populisti. Il quarto fattore, almeno finora, è stato quello di essere, il governo Meloni, un asset imprescindibile per proteggere le imprese italiane dal partito trasversale della decrescita felice. Il quinto fattore, più politico, ma non indifferente, e forse il più importante per Meloni, è stato quello di essere stata, in questi due anni e mezzo a Palazzo Chigi, un argine al salvinismo, e per quanto possa sembrare paradossale, per Meloni il semplice non essere stata Salvini è stato un elemento di grande accreditamento internazionale.

 

Nella nuova stagione politica, per Meloni, vi sono alcune stelle fisse al loro posto (non essere Salvini, per esempio, e hai detto poco), vi sono alcune caratteristiche che sono rimaste intatte (come la prudenza sui conti, per esempio, e hai detto poco). Ma vi sono alcuni punti di forza, per Meloni, che sono diventati negoziabili, e che essendo stati messi in discussione sono diventati tre elementi di fragilità potenziale per l’Italia. Il primo tema, naturalmente, riguarda l’Ucraina. Meloni non si può dire non sia schierata a difesa dell’Ucraina, ma il bullismo di Trump contro Zelensky ha avuto l’effetto di stemperare l’entusiasmo con cui, fino a qualche settimana fa, la premier difendeva la causa dell’Ucraina e di conseguenza la centralità dell’Italia nella politica estera europea ne ha risentito, come dimostra il fatto che l’arrivo di Trump ha rivitalizzato tutti i leader in Europa che si sono mostrati pronti nel reagire alle sberle americane e che hanno scelto di prendere sul serio la minaccia trumpiana all’Ucraina. Il secondo tema, più sottile, riguarda una condizione che l’Italia oggettivamente non ha più: la stabilità unica in Europa. C’è stato un tempo, non molto lontano, in cui in Europa la condizione era questa: governi instabili nel Regno Unito instabile, maggioranze fragili in Germania, governo di minoranza in Francia, e in Spagna. L’Italia, in quel contesto, era l’unico grande paese europeo senza problemi di maggioranze, con un governo stabile con una lunga prospettiva di vita. Le caratteristiche dell’Italia sono ancora lì, di fronte a noi, ma l’Italia in questi anni ha perso la sua unicità e la sua specificità, su questo terreno, e l’Europa oggi ha paesi con governi più stabili e più duraturi rispetto all’Italia. Il Regno Unito, in primis, pur essendo fuori dall’Ue, e in secondo luogo la Germania, il cui governo dovrebbe nascere entro Pasqua e il cui percorso dovrebbe essere caratterizzato da una grande mole di denaro pubblico investito nel paese, elemento che potrebbe portare vitalità all’economia italiana ma che è destinato nei prossimi anni a ridare alla Germania una centralità che aveva perso in questi anni. Il terzo elemento, in bilico nell’identità meloniana, riguarda il rapporto con le imprese – e da questo punto di vista si capisce la ragione per cui, martedì scorso, Meloni si è sentita in dovere di lanciare un messaggio al ceto produttivo: non vi preoccupate, i dazi sono un tema che mi sta a cuore – ed è legato anche a un altro elemento di fragilità meloniana: la consapevolezza che l’amicizia con Trump prima o poi la metterà di fronte a una scelta potenzialmente dolorosa, dover decidere cioè se stare con le imprese italiane o con la presidenza americana, e dover trovare un modo per convincere il partito del pil sulla bontà della posizione dell’Italia.

Non è semplice, non è facile, è una posizione che crea disorientamento, ci sono punti cardinali che Meloni ha smarrito, e il grande tema di qui ai prossimi mesi sarà dunque anche questo: nella galassia meloniana ci sono stelle che brillano meno, riuscirà Meloni a trovare delle altre stelle per continuare a brillare o la stella del trumpismo avrà l’effetto di far brillare un po’ meno la stella meloniana? La direzione è giusta, il disorientamento c’è, e per la prima volta da quando è a Palazzo Chigi la strada per Meloni non è più in discesa ma è solo in salita: non essere Salvini è importante, ma nella stagione del trumpismo non basta più.
 

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.