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Dalla ferrovia di Portici alle disavventure di Salvini. Storia politica dei treni italiani
Fu l’irruzione dei treni a sincronizzare gli orologi della Penisola e a darle lo stesso orario, dalla punta della Sicilia alla cima delle Alpi. Tragedia e varietà ferroviarie
Quando il primo treno della storia nazionale partì da Napoli per arrivare a Portici, il 3 ottobre del 1839, il ritardo non esisteva ancora nella mentalità dell’Italia preunitaria. In alcune città l’orologio del campanile era regolato sul mezzogiorno solare, in altre sul tramonto. A Verona il tempo era in anticipo di tredici minuti rispetto a Torino, a Firenze in ritardo di quindici. La vita aveva un ritmo diverso a Roma e a Palermo, a Napoli e Bologna, a Genova e Milano. Fu l’irruzione dei treni a sincronizzare gli orologi della Penisola e a darle lo stesso orario dalla punta della Sicilia alla cima delle Alpi. Il treno fu un’altra unità d’Italia, un altro Risorgimento.
Non pensava certamente a questo, Matteo Salvini, quando al congresso della già secessionista Lega, sabato, ha ricevuto la notizia che l’ennesimo ritardo sull’alta velocità aveva assunto un risvolto specialmente bizzarro: sui treni fermi, stavolta, c’erano anche i giornalisti inviati per raccontare la sua conferma a leader del partito. Avrà pensato che era troppo. Basta treni, meglio tornare a fermare barconi dal ministero degli Interni. Di qui la richiesta ufficiale di tornare al Viminale? Sicuramente tutto immaginava due anni e mezzo fa, quando scelse il ministero delle infrastrutture e dei trasporti, tranne che avrebbe dovuto vedersela con gente ferma ore nelle stazioni, nei vagoni, in strada, gente che strepita, s’infuria, non ne può più di aspettare e se la prende con te. Salvini aveva in testa la grande opera del ponte sullo Stretto di Messina, per rilanciare la propria immagine logorata dall’estate dei “pieni poteri”. Invece gli è toccato vedersela con il ritardo, suprema invenzione ferroviaria. In stretto legame, però, con la politica moderna. Da Lenin in poi – che arrivò in treno all’appuntamento con la rivoluzione in Russia – ogni leader deve avere la qualità essenziale di azzeccare i tempi, in un tempo che corre sempre più velocemente.
La puntualità unisce sottilmente il treno alla politica: ma, in alcune circostanze, questo legame sotterraneo emerge inequivocabilmente. Era il direttissimo DD17 il convoglio sul quale – in vagone letto – arrivò Benito Mussolini a Roma il 30 ottobre 1922, per ricevere dal Re l’incarico di formare il governo, al termine di giorni di altissima tensione politica, sociale e ferroviaria. La minaccia della Marcia su Roma fascista aveva spinto lo stato, nella persona del generale Pugliese, a prendere contromisure di guerra. Tagliò i binari a Civitavecchia, rovesciò quattro carri ferroviari sui binari di Orte, interruppe le linee ad Avezzano, a Segni. Ventiduemila fascisti non riuscirono ad arrivare nella Capitale per occupare i centri strategici dello stato, com’era nei piani. Ma Vittorio Emanuele III non volle andare oltre nella sfida a Mussolini, e lo chiamò al Quirinale per dargli l’incarico, sicuro che avrebbe ammansito il fascismo col tempo.
Era il direttissimo DD17 il convoglio sul quale Mussolini arrivò a Roma il 30 ottobre 1922, per ricevere dal Re l’incarico di formare il governo
A gennaio in Parlamento, quando il ritardo aveva messo assai in imbarazzo il governo, il ministro Salvini disse che c’era di mezzo una strategia della tensione, una catena di attentati, un “quadro di incendi dolosi, esplosioni, guasti, rotture”, crimini in parte rivendicati su “blog gestiti da frange anarco-insurrezionaliste”. La pista del sabotaggio politico, Salvini ne era consapevole, ha la forza di un’immensa tradizione dalla sua parte, rinnovata negli ultimi tempi dal movimento No-Tav. L’ultimo episodio di una certa consistenza è datato capodanno del 2017. Protagonista un gruppo anarchico che brucia i fili della cabina elettrica alla stazione di Rovezzano, periferia di Firenze, e manda in subbuglio la linea. Già tre anni prima era successo un episodio analogo, a Bologna: le frange più estreme del movimento contro la Torino-Lione avevano dato fuoco alla centralina dell’alta velocità, colpendola con una bomba incendiaria. Grandissimi disagi. Moltissimi passeggeri stremati. Massima pubblicità alla lotta dura e pura. Ha detto Maurizio Lupi che “l’attentato alla mobilità non va mai sottovalutato, e non è un caso che i treni siano sempre diventati il bersaglio di chi voleva sovvertire la nostra comunità”.
Nella storia della Prima Repubblica il treno è stato in effetti uno spaventoso veicolo di sangue, il mezzo della puntualità del male. Il primo e più dimenticato episodio battezza gli anni Settanta, il 22 luglio 1970, quando era da poco esplosa la rivolta di Reggio Calabria per reclamare il titolo di capoluogo della Regione, assegnato invece a Catanzaro. Il treno Palermo-Torino, “la Freccia del Sud”, deraglia a circa 750 metri dalla Stazione di Gioia Tauro. Il macchinista sente un boato, prima che il convoglio perda aderenza e finisca fuori dai binari. Muoiono sei persone, 70 feriti. Ufficialmente si parla di incidente, ma in molti nutrono dubbi. Il Corriere della Sera intervista un esperto di disastri ferroviari. Afferma che la dinamica dell’incidente non lo convince affatto, che la versione ufficiale non regge. Il direttore Giovanni Spadolini non lo pubblica, non vuole alimentare l’ansia tra i lettori. Vent’anni dopo si scoprirà che l’attentato venne preparato da esponenti del movimento “Boia chi molla”, la destra che aveva egemonizzato la rivolta di Reggio, insieme alla cosca della ‘ndrangheta Di Stefano.
Nella storia della Prima Repubblica il treno è stato uno spaventoso veicolo di sangue, il mezzo della puntualità del male
Poi ci fu Bologna 1980: la mattina del 2 agosto un ragazzo e una ragazza molto giovani entrano nella sala d’aspetto della seconda classe, affollatissima, con una borsa-valigia di pelle con piedini di metallo. La poggiano sul tavolinetto portabagagli a cinquanta centimetri dal suolo. Dentro la borsa-valigia ci sono circa 25 chili di esplosivo. I due si allontano alle 10, 25 minuti dopo la bomba esplode. Uccide 86 persone, ne ferisce più di 300. Anni dopo, l’ex presidente Cossiga affermerà: “La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della ‘resistenza palestinese’”. Gli obiettano: “Va bene che grazie al Lodo Moro i palestinesi erano autorizzati a fare quello che volevano in Italia, purché non colpissero il nostro Paese, ma è possibile che si spingessero a trasportare l’esplosivo sui treni?”. “Divenni presidente del Consiglio poco dopo”, rispose Cossiga, “e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così”. Vero? Falso? Le sentenze giudiziarie hanno affermato un’altra verità, altrettanto discussa. Quella della strage neofascista.
Infine il 1984. Sul rapido 904 che da Napoli arriva a Milano sale Carmine Lombardo, detto ‘o nano, con due borse che colloca sulla reticella della vettura. Treno pieno. E’ la vigilia di Natale. Il ragazzo scende a Firenze. Il convoglio imbocca la galleria di 19 chilometri che inizia poco dopo, ma prima che sbuchi fuori l’esplosivo viene azionato a distanza. Muoiono 15 persone, 230 i feriti. Si scoprì in seguito che si era trattato di un attentato mafioso.
Nulla di tutto ciò è paragonabile alle cronache ferroviarie di oggi: la polemica sul vino di Bruno Vespa venduto sul Frecciarossa (“una cosa che succede dalla fine dello scorso decennio”, ha spiegato Vespa), oppure il treno su cui viaggia in forte ritardo il ministro Lollobrigida che effettua una fermata straordinaria per consentirgli di arrivare in tempo a un impegno istituzionale. Roba da varietà, più che da tragedia. Senza sottovalutare il varietà, naturalmente. Perché i treni sono anche una stupefacente musa ispiratrice della musica leggera italiana. “La locomotiva” di Francesco Guccini è la canzone più famosa. Ma prima c’era stata “Binario” di Claudio Villa e poi ci sarà “Ripensando alla Freccia del sud” di Umberto Tozzi. Il treno affascina, seduce, incanta. E’ il simbolo del viaggio, della velocità, dell’avventura. Sigmund Freud si spinse addirittura a dire: dell’Eros. Perché? In primis perché era Freud e, dal suo punto di vista, tutto era sessualità. Poi per le vibrazioni prodotte. “Il carattere piacevole delle sensazioni di movimento” inducono ad “associare in tal modo il viaggio in treno con la sessualità” scriveva, spiegando che “le scosse esercitano un effetto così affascinante sui bambini che tutti i ragazzi, a un certo punto della loro vita, hanno desiderato diventare macchinisti”.
Dagli attentati alle cronache ferroviarie odierne: la polemica sul vino di Bruno Vespa e il treno che si ferma per far scendere Lollobrigida
Non era questo il caso di Cavour, anche se conobbe i treni da giovane, in Inghilterra, e li amò subito sconsideratamente. Il suo primo investimento nelle strade ferrate, come si chiamavano allora, fallì, ma non si fermò. Continuò a entrare in affari per costruire altre linee ferroviarie. “Ma quale rischio?” rispondeva a chi credeva che prima o poi sarebbe andato in bancarotta. “C’è uno da perdere e dieci da guadagnare”. Secondo il Conte, le ferrovie avevano un risvolto politico rivoluzionario. Tutte le merci in un futuro sarebbero passate sui binari e le relazioni tra stati sarebbero state condizionate. Ma, a proposito di puntualità, il treno era per Cavour un veicolo fenomenale per arrivare in tempo all’Unità d’Italia. Il suo articolo più celebre lo dice chiaramente. Titolo: “Des chemins de fer en Italie”, le strade ferrate in Italia. “Non c’è più nessuno con un po’ di buon senso – si legge – che non capisca l’importanza delle ferrovie”. I treni annullavano le distanze, facevano circolare le idee che avrebbero dato alle masse coscienza della propria nazionalità. “Il tempo delle cospirazioni è passato”, scriveva. “L’emancipazione dei popoli non può essere effetto né d’un complotto né di una sorpresa; essa è diventata la conseguenza necessaria dei progressi della civiltà cristiana, dello sviluppo dei lumi”.
Ancor prima che la Lega la volesse dividere, i treni hanno puntualmente continuato a unire l’Italia, trasportando la gente dal sud al nord per lavorare, negli anni che prepararono il benessere. Viaggi massacranti dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Basilicata, dalla Puglia, dalla Campania, fino a Torino, a Milano. Si arrivava alla stazione con ore di anticipo, con le valigie di cartone. I bimbi li tiravano dentro dai finestrini. I vagoni tanto pieni che si aveva paura anche di alzarsi a fare pipì, per non perdere il posto. I ritardi erano all’ordine del giorno, figurarsi, e hanno continuato ad esserci anche dopo. Al punto che dal setaccio delle cronache spunta la notiziola che all’inizio degli anni duemila era emerso un angelo custode dei pendolari, Mister Ritarditalia. Chi era? Un quarantaseienne di Firenze, di nome Francesco Palmerio, pendolare che lavorava come programmatore di software. Aveva inventato un sistema per informare i passeggeri dei ritardi. Bastava inviargli un sms con il numero del treno e il sistema rispondeva con gli orari effettivi, grazie a una rete di persone che condivideva le informazioni di viaggio con lui. Favolose bizzarrie dell’epoca pre internet.
Viaggi massacranti dalla Sicilia fino a Torino, a Milano. Le valigie di cartone, i vagoni pieni, i bimbi tirati dentro dai finestrini
Oggi i ritardi sono compagni di viaggio abituali dei viaggiatori e ciò dimostra – amano dire, con una battuta, a destra – che il governo Meloni è tutto fuorché fascista, dal momento che “quando c’era Lui” i treni arrivavano in orario. Come ci riuscì, il regime, a ottenere questo risultato, lo racconta Stefano Maggi nel suo libro “Le ferrovie” (Mulino): ovvero, sradicando il personale più politicizzato che aveva condotto le battaglie sindacali, i ferrovieri socialisti, comunisti e anarchici, in tutto 53 mila licenziati. Più la creazione di un corpo di milizia ferroviaria pronto a sedare ogni disordine. Il tutto unito a una campagna di propaganda martellante, guidata da Galeazzo Ciano, la cui efficacia ancora si riscontra, se la puntualità dei treni fascisti rimane un punto di riferimento della discussione pubblica.
Matteo Salvini, invece, ogni giorno prende posto dietro la sua scrivania al ministero e riceve un funzionario che gli dice: “Ministro, oggi ci sono 50 minuti di ritardo sull’alta velocità tra Roma e Firenze”. E lui deve correre ai ripari. L’indomani il ritardo è tra Milano e Torino, e lui deve metterci una pezza. Per non dire di quello che succede da Napoli in giù. E sempre lui è chiamato a risponderne. Mentre si vorrebbe occupare esclusivamente d’importare in Italia l’agenda trumpiana, possibilmente senza dazi e dalla plancia di comando del Viminale. Recuperare centralità. Sognare in grande. Palazzo Chigi, anche. Basta macchinisti, vuole tornare a essere il terrore dei trafficanti di essere umani. Non ne può più dei passeggeri infuriati, rivendica il ritorno allo stop degli immigrati. Ma gli alleati, al momento, fanno finta di non sentirlo. Piantedosi, poi, non ne vuole sapere di lasciargli il posto. Così gli tocca ancora la maledizione dei ritardi. Sempre più con il rimpianto di quando aveva l’Italia ai suoi piedi, prima che nella fatale estate del Papeete riuscisse a perdere il treno che lo portava a Palazzo Chigi. Solamente la fantasia di Dante avrebbe potuto immaginare un contrappasso così crudele. Sbattere ogni giorno il muso – lui che continua a rincorrere il treno che gli è sfuggito via – sui Frecciarossa che non arrivano mai. Mentre nelle stazioni di tutta la Repubblica i passeggeri si recano sempre più come avessero scritto sopra l’avvertenza: lasciate ogni speranza, o voi che entrate.