
l'editoriale del direttore
Come Meloni ha rottamato il salvinismo sui migranti
Prendere sul serio Salvini, perché no? Il vicepremier vuole tornare al Viminale, ma la linea del governo – più solidarietà, meno sovranismo – è lontana dalla sua. E pure sull’Europa deve fare i conti con un approccio del governo antilepenista, antitrumpiano
La storia la conoscete. Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio, ministro delle Infrastrutture, da giorni ha scelto di spostare l’attenzione della sua agenda politica su due temi interessanti, che meritano di essere presi sul serio. La necessità di spostare l’agenda politica su temi nuovi, diversi da quelli principali, è dettata da una circostanza non semplice da gestire e da maneggiare, ed è quella di dover fare qualcosa per sviare l’attenzione dai problemi centrali, dal problema centrale, dalla questione cruciale, che è quella della presenza alla guida degli Stati Uniti di un presidente americano amico, in teoria, che sta facendo di tutto per passare sopra le teste degli alleati come un tempo avrebbe fatto qualcuno con una famosa ruspa. I temi sui quali Matteo Salvini si sta concentrando di più, che meritano di essere presi sul serio, sono due, e sono entrambi suggestivi.
Il primo tema riguarda l’Europa, riguarda la volontà di non parlare di quello che sta facendo l’America e riguarda la volontà di parlare di quello che non sta facendo l’Europa, con l’idea che i principali problemi del nostro continente siano legati non alle sberle allucinanti inviate al nostro continente da Donald Trump, ma viceversa a quello che l’Europa non sta facendo, sul tema dei dazi interni, dei lacci, dei lacciuoli, della burocrazia che andrebbe rivista e resa meno ingombrante e dell’Europa che andrebbe resa più efficiente. Il ragionamento potrebbe avere senso, anzi sarebbe anche corretto, se non fosse che il soggetto che ha posto il tema al centro del dibattito è lo stesso che in questi anni ha fatto di tutto per evitare che l’Europa potesse avere gli strumenti giusti per essere più efficiente, più integrata, più sovrana, più aperta, più globalizzata. Salvini, dunque, parla di quello che dovrebbe fare l’Europa, pur essendo lo stesso che in questi mesi, anzi in questi anni, ha lavorato, e combattuto, per avere un’Europa più debole, più vulnerabile, più esposta ai pericoli esterni, meno globalizzata, meno interessata a rafforzare i suoi rapporti di libero scambio con il mondo libero, ed è lo stesso che in definitiva ha fatto molto per avere un’Europa più protezionista e più incline a combattere la globalizzazione.
Il mondo che ha in mente Trump, il mondo fatto di barriere, di muri, di dazi, di protezionismo, è un mondo che somiglia maledettamente a tutto quello che Salvini, e anche i suoi alleati, hanno cercato in questi anni di alimentare, di promuovere, non rendendosi conto che l’unico modo per evitare di assecondare quel tipo di narrazione era fare tutto l’opposto rispetto a quello che si è scelto di fare: e dunque, promuovere più concorrenza, promuovere più efficienza, utilizzare i soldi per abbassare le tasse, non per alzare le pensioni, e fare tutto il necessario per creare più concorrenza, dunque più competitività e dunque più efficienza e dunque più servizi migliori.
Il secondo tema interessante che riguarda l’agenda di Salvini, un’agenda che merita di essere presa sul serio, ha a che fare con una richiesta precisa, ed è la richiesta di Salvini di cambiare ministero, di passare al Viminale. E’ una scelta legittima. In fondo Salvini vorrebbe avere il diritto di chiedere e ottenere qualcosa di importante per se stesso, è pur sempre il numero tre del governo, ma il punto è che sembra che sia all’interno della sua stessa maggioranza che non si vuole prendere sul serio questa richiesta. La questione è personale, perché nel governo sanno che al Viminale esistono delle leve che se mosse in una certa direzione possono permettere di spettacolarizzare una politica che non merita di essere spettacolarizzata. Ma la questione in fondo potrebbe essere anche diversa, e a voler essere benevoli si potrebbe dire che in fondo come ministro delle Infrastrutture Salvini non ha lavorato così male. Ha commesso alcuni pasticci, ha avuto difficoltà a gestire situazioni gestibili, come il ritardo dei treni, ha creato un codice della strada che è stato percepito in un modo più restrittivo rispetto a quello che è, ha dato vita a un codice degli appalti che è meno drammatico rispetto a come è stato percepito e a voler fare la parte degli ingenui si potrebbe dire che al governo preferiscono che Salvini resti dove sta, anche per evitare di stabilizzare un equilibrio instabile che pure non funziona così male. A voler osservare la realtà con un occhio più malizioso, e più realistico, appare evidente che il punto è un altro. E il punto non riguarda ciò che Salvini è ma ciò che Salvini rappresenta.
Il problema vero è che in questi anni, disastro albanese a parte, il governo italiano sull’immigrazione ha seguito una linea poco sovranista, poco nazionalista, poco antieuropeista, e ha avuto in almeno tre occasioni un approccio che potremmo persino definire antilepenista, antitrumpiano, e in definitiva antisalviniano. Il governo Meloni, sull’immigrazione, ha ottenuto successi che non può rivendicare, perché rivendicarli significherebbe sconfessare una linea politica al centro della quale vi è stata per molto tempo la volontà di affermare una verità che oggi non torna e che nel passato i sovranisti hanno ripetuto all’infinito. I populisti di destra hanno detto a lungo che l’immigrazione va combattuta, non governata, e per anni hanno detto che l’Europa è solo un ostacolo alla risoluzione dei problemi. Invece, in questi mesi, Meloni ha fatto l’opposto, in modo sistematico. Ha portato avanti il decreto Flussi più importante della storia della Repubblica (452.000 lavoratori stranieri nel triennio 2023-2025). Ha costruito un rapporto con l’Europa basato sull’accettazione di un nuovo trattato che istituzionalizza a partire dal primo gennaio 2026 quello che con troppa fretta Meloni ha voluto fare in Albania (l’extraterritorialità). Ha portato avanti una collaborazione con la presidente della Commissione europea non a colpi di strappi ma a colpi di accordi (no blocchi navali, sì solidarietà europea). Ed è riuscita anche a gestire meglio i flussi dal Nord Africa non chiudendo i porti (linea salviniana) ma dialogando con i paesi da cui parte l’immigrazione anche con qualche successo (Tunisia e Libia in primis, vedi alla voce Piano Mattei).
In questo senso, il salvinismo non è compatibile con la gestione dell’immigrazione di questo governo non per ragioni legate a ciò che Salvini rappresenta ma per ragioni legate a ciò che rappresenta il salvinismo. E anche se Meloni non potrà mai ammetterlo, i successi, modello Albania a parte, raggiunti nella gestione dei flussi di migranti dipendono dal modo in cui il governo Meloni-Salvini si è allontanato dalla propaganda elettorale di Meloni e Salvini. Più Europa, non meno Europa. Più solidarietà, non più sovranismo. Il caso dei dazi, per i mercati, ha dimostrato quanto la diffusione del nazionalismo, in economia, sia un pericolo prima di tutto per i paesi più vulnerabili a livello economico. Per l’immigrazione, in fondo, vale lo stesso principio: la diffusione del nazionalismo, anche su questo dossier, è un pericolo per l’Italia, perché aggredendo la solidarietà sui migranti si aggredisce anche l’interesse nazionale del nostro paese.
In silenzio, Meloni ha dimostrato che gestire l’immigrazione senza chiudere i porti e senza blocchi navali è possibile (e la necessità di avere una scappatoia demagogica come è il modello albanese nasce anche da qui: dalla difficoltà di rivendicare ciò che ha fatto con l’Europa sui migranti e dalla volontà di trovare un qualche modo per dimostrare di essere sempre la stessa del passato). E il no che con ogni probabilità dirà Meloni al suo vice è legato non tanto alla paura di Salvini quanto alla volontà di portare avanti una politica di discontinuità totale con l’agenda del salvinismo. Non per ragioni politiche, di equilibri nella maggioranza, ma per ragioni legate a un problema che riguarda la presenza, sul tema dell’immigrazione, di un avversario molto pericoloso per i leader sovranisti: semplicemente, la realtà.