(foto Ansa)

orgoglio e vitalizio

Il diritto riacquisito per legge e il metodo della gogna in Italia. Parla Francesco De Lorenzo

Salvatore Merlo

Nello studiolo dell'ex ministro: da Tangentopoli alla guerra per togliere la pensione a quattro ultra ottantenni. “Vi racconto cos’erano i processi di Mani Pulite e qual è il rigurgito anticasta oggi”

Non l’ho chiesto io, il vitalizio. Ma era un diritto, e i diritti si difendono. Anche quando sei stanco, anche quando il mondo ti ha già processato e condannato”. Ha ottantasei anni Francesco De Lorenzo, il volto scavato dal tempo e forse anche dalla chemioterapia cui è stato sottoposto per anni. I capelli radi e bianchi sono ancora pettinati all’indietro, come li porta nelle foto di un’epoca lontana che sono appese qui nel suo piccolo studio, a Roma, in piazza Barberini. Quelle da giovane medico a Bethesda (“lo vede quello con me? E’ il premio Nobel Christian B. Anfinsen”), quelle da ricercatore a Berkeley (“avevo vent’anni”), quelle da ministro della Sanità, quando il suo nome era sinonimo di potere e, poi, di infamia. “Tangentopoli nasce con me. La mia fu la prima violazione fatta contro la democrazia, contro il parlamentarismo e contro la politica in generale”, dice. L’inizio della fine. “A settembre del 1992 i Carabinieri vennero a perquisire il mio ufficio a Napoli senza autorizzazione a procedere. Sequestrarono i dischetti del mio computer. Non vi dico cosa scrissero i giornali. A quei tempi ero il mostro. L’orrore. Il colpevole di ogni cosa. Ma vuole sapere il fatto più amaro e comico dell’intera faccenda?”. Mi dica. “Anche in quel processo fui assolto”. Quanti processi? “Venticinque richieste di autorizzazione a procedere. Quindici processi a Napoli. Uno è durato dieci anni”.

Quante condanne? “Una sola condanna in via definitiva che mi ha anche portato in carcere mentre avevo il cancro”. Cinque anni e quattro mesi per associazione a delinquere e corruzione. “Ma io non ho mai preso una lira per me. Io sono colpevole, sì: colpevole di finanziamento illecito ai partiti. E lo hanno anche scritto le Sezioni unite della Corte di cassazione. Guardi, gliela leggo la sentenza, la tengo qui sulla scrivania non lontano dalla lettera in cui do del mascalzone a Oscar Luigi Scalfaro. Eccola. Senza queste righe  io non so come sarei potuto sopravvivere. Forse sarei già morto.  Scrive la Cassazione: ‘... è la stessa accusa ad aver prospettato che tutte le somme corrisposte dai corruttori finivano nelle casse del partito cui De Lorenzo apparteneva’”. Rimpianti? “Non avrei mai dovuto finanziare il partito. Fu come aprire una crepa nel muro, e il muro crollò. Non solo su di me, ma su un’intera epoca”. A luglio del 2024 il tribunale di Sorveglianza di Roma lo ha riabilitato, l’ultra ottuagenario De Lorenzo. Aprendo la strada alla restituzione del vitalizio parlamentare che gli era stato tolto nel 2015 in seguito a una delibera della Camera dei deputati, fortemente spinta dal Movimento 5 stelle, che prevede la sospensione del vitalizio ai condannati per reati gravi  come quelli contro la Pubblica amministrazione. La restituzione è avvenuta questa settimana, approvata all’unanimità a Montecitorio. Con il voto favorevole anche del M5s. Sorpreso dal voto grillino? “La norma era ed è incostituzionale e io ho diritti come ogni altro cittadino”. 

 

Anche se Francesco De Lorenzo in Italia è stato il mostro. Quando venen scarcerato, moltissimi anni fa, andarono a fotografarlo mentre pranzava in un famoso ristorante di Roma: “I due ladroni”. Quando glielo si ricorda, sorride con eloquenza. Poi ritorna sulla questione dei vitalizi, l’ultima punizione: “La norma del 2015 viola anche il principio di irretroattività delle leggi, oltre a quello del diritto alla riabilitazione. La delibera dell’altro giorno a Montecitorio era inevitabile”. Ieri sera il Movimento 5 stelle ha emanato una nota: dicono che avere votato a favore di quella delibera, da parte loro, è stato un “errore politico”. Pare che Giuseppe Conte in persona si sia lamentato con i suoi parlamentari. Lo è stato, un errore politico da parte loro? O hanno fatto una cosa giusta? “Non voglio fare polemiche, non mi interessa. Guardi, alla Camera hanno deciso di riconoscermi solo nove mesi di arretrati, non ventisette. Pazienza. Non farò altri ricorsi, non faccio appelli. Va bene così. Altri hanno fatto pressioni su questa storia dei vitalizi, io no. Ho fatto solo un ricorso, sì. Ho aspettato. E alla fine la legge ha prevalso”. Punto. Ascoltandolo verrebbe da dire che il vitalizio, per lui, è molto più di una pensione. E’ un simbolo: di dignità, di una giustizia che anche se in ritardo arriva. 


Quando mi tolsero il vitalizio  facevo ancora la chemio, mi difendevo nel processo e non a questa storia non ci pensavo


Gli si chiede, allora, suggerendo implicitamente la risposta: togliere la pensione a degli ultra ottantenni che hanno già scontato la loro pena è accanimento o è giustizia? “All’epoca, quando mi tolsero il vitalizio, ero molto malato. Facevo ancora la chemio, combattevo nel processo. Non avevo energie anche per quella battaglia. Le confesso che non l’ho vissuta in nessun modo la storia del vitalizio, voglio dire: l’ho vissuta senza trasporto. Semplicemente mi sembrava che fosse in violazione della Costituzione come diceva anche il mio avvocato, Maurizio Paniz. E lo è, incostituzionale”. Cos’è il Movimento 5 stelle? “E’ quello che tutti vedono. Oggi è un partito strutturato. All’inizio era una rivolta, la voce di chi non si sentiva rappresentato”. Volevano aprire la scatoletta di tonno. “Ma non c’è più nessun tonno, figurarsi la scatoletta”.   

 

A Piazza Barberini, in un angolo di Roma che sembra sospeso tra il caos della città più rumorosa d’occidente e quello di un passato che ritorna sui giornali, Francesco De Lorenzo mi aspetta nel suo piccolo ufficio. E’ il quartier generale dell’Aimac, “l’Associazione Italiana Malati di Cancro, Parenti e Amici” che l’ex ministro del Partito liberale italiano ha fondato e che, in un certo senso, è probabilmente la sua redenzione, il suo modo di restare al mondo dopo che il mondo lo ha masticato e sputato. “Sa cosa significano quindici processi? Essere accusato di tutto? Tutto! Accuse che spaziavano dall’omicidio colposo perché uno era morto dopo un’aspirina, all’abuso d’ufficio per aver autorizzato gli ottici in farmacia, fino alla ricettazione per un libro mai pubblicato...  Per anni ho letto da solo migliaia di pagine processuali. Due anni a casa, con un giovane avvocato, a fare appunti. I miei difensori non riuscivano a stare dietro a tutto. Io sì. Non dormivo. Non per il vitalizio. Per l’onore. Mi sono ammalato, ho divorziato...”. Andreotti, Craxi e De Lorenzo. L’incarnazione del male. “Così era. A Roma c’era Andreotti, a Milano c’era Craxi e a Napoli c’ero io. Pure la Corte dei Conti mi attribuì 17.000 miliardi di danno erariale. Poi divennero 12.000, poi 7.000, poi zero. Ma intanto mi sequestrarono tutto. Ho venduto anche la casa di famiglia a Napoli, quella dove sono nato. E ho ancora beni sequestrati. L’eredità di mio padre, che per fortuna era un uomo assai benestante. Ma il vero processo in quegli anni non era in Aula, guardi. Era in piazza, era in televisione, era sui giornali. Oggi anche Antonio Di lo riconosce, lo ha detto proprio a lei in un’intervista sul Foglio: la stampa fu più spietata dei magistrati. Pensi che i miei processi i giornalisti non li seguirono. Mi avevano sbattuto in prima pagina sulla base delle accuse. Con accanimento. Ma poi non seguivano l’andamento dei processi. Parlavano del sangue infetto. Dello scandalo del sangue infetto. E ancora oggi mi ricordano per il sangue infetto. Ma io non sono mai stato processato per il sangue infetto! Con quella faccenda orribile non c’entro niente. In quel processo non sono comparso nemmeno come testimone”. 

 

I giornali erano le tricoteuse della Rivoluzione? “No, erano i sanculotti. Peggio. Repubblica mi dedicava titoli in prima pagina. Quando fui assolto, dieci righe in fondo. ‘Striscia la Notizia’ mi accusò di essere il responsabile della storia del sangue infetto. Ho dovuto fare ricorso al Garante per ottenere una rettifica”. E ancora: “Quando fui scarcerato, il presidente di un’associazione per i diritti dei detenuti mi chiese di collaborare con loro. E io mi associai subito, gli feci un assegno di cinquecento euro. Ebbene, qualcuno modificò l’importo di quell’assegno, aggiungendo zeri. I cinquecento euro divennero cinquantamila. Una truffa. Feci denuncia, fermai l’incasso dell’assegno. E infatti chi lo falsificò oggi è stato condannato. Ma sa cosa scrisse il Corriere della Sera? Scrisse: ‘De Lorenzo prima fa una donazione a un’associazione benefica e poi la ritira’”. 

 

E De Lorenzo – brevilineo, minuto, cordiale – ritrova la foga degli accenti solo quando parla di quegli anni, nei quali rimane chiuso come dentro a un dolore. Alle pareti, il suo passato lo guarda. C’è una fotografia appena sbiadita, si vede lui giovane ministro (“avevo quarantatré anni quando fui travolto da Tangentopoli”) accanto a Fidel Castro. Un’immagine che sembra uscita da un romanzo di Graham Greene. “Ero a Cuba per un congresso, e Castro mi invitò nel suo Palazzo. Ero il primo uomo di governo italiano a incontrarlo”. E c’è un lampo di nostalgia, chissà, nei suoi occhi, un guizzo di giovinezza. “Mangiavamo spaghetti. Lui era vestito come sempre di verde militare, ma la sua tuta mimetica non era di stoffa ruvida: era di seta iridescente. Diciamo che lì da lui era tutto di seta, di lusso. Ah, e teneva una mitraglietta sotto il sedile della macchina. Sotto i piedi”. La scena è quasi surreale, un misto di esotismo e tensione. “Quando tornai, dissi che con tutti i limiti del sistema la riabilitazione medica a Cuba funzionava. Mi accusarono, scherzando, di essere diventato comunista”. 
De Lorenzo però non è vestito di seta. Indossa una giacca di lana blu, dei pantaloni di flanella grigia, una camicia azzurra e una cravatta rossa a riquadri. Un’eleganza che non ostenta, ma che forse racconta una dignità ostinata, come se ogni piega del tessuto fosse un atto di resistenza. “Quando ero in carcere non parlavo con i magistrati che venivano a interrogarmi. Non avevo niente da dire. Nessuno da denunciare. Avevo già fatto dichiarazioni spontanee, avevo detto tutto quello che sapevo. Ma quelli insistevano. A un certo punto dissi: ‘Mi dichiaro prigioniero polito’. Lo dico scherzando, ma anche sul serio. Mi chiedevano continuamente di Valerio Zanone, di Alfredo Biondi che a quei tempi era diventato ministro, mi chiedevano di Silvio Berlusconi. Se avessi fatto un nome, mi avrebbero scarcerato. Ma io che nomi potevo fare? Non c’erano nomi e cose da raccontare. E allora sa che fecero? Siccome non parlavo, si misero ad arrestare tutti quelli che mi stavano intorno”. 


“I magistrati mi tenevano in carcere, volevano che facessi il nome di Zanone, Di Alfredo Biondi o di Berlusconi”


Ma i passaggi di denaro ci furono, le tangenti pure. “Eccerto. Finanziavo il partito. Io non ho mai preso un centesimo per me. E non esiste un testimone che dica di avermi dato dei soldi. Nessuno. Solo il mio segretario, che scrisse un memorandum con Di Pietro. Lo ha ammesso lui stesso: lo scrisse insieme al pubblico ministero, per evitare il carcere”. Qual è il suo giudizio su Di Pietro? “Perseguiva un suo interesse. Aveva un’idea distorta del ruolo e della funzione del pm. Un pm dovrebbe tutelare anche gli imputati, non solo accusare e cercare di strappare confessioni attraverso l’uso della minaccia carceraria”. Di Pietro però direbbe che non è così, e che lui, personalmente, non usava il carcere in questo modo. Chissà. 

 

Quando gli si dice che gli uomini della Prima Repubblica erano più colti, parlavano meglio e persino si vestivano meglio di quelli di oggi, lui annuisce. Poi si ferma. E si lascia andare a una riflessione più ampia. “La Prima Repubblica era l’insieme dei partiti e delle culture politiche che hanno rifatto l’Italia dopo la distruzione della guerra. Non era perfetta, certo, ma aveva un’anima. E’ stata cancellata con un colpo di spugna. Via le prime file, via le seconde file, ma via pure le terze e anche le quarte file. Con un’eccezione”. E qui De Lorenzo si ferma di nuovo. Ci pensa un attimo. Si stropiccia la palpebra destra. E poi, tutto d’un fiato: “I comunisti. L’eccezione sono stati i comunisti. Glielo dico io perché i leader comunisti non sono finiti dentro Tangentopoli: è stato soltanto grazie all’indulto del 1989. Tutto ciò che era accaduto prima del 1989 non era perseguibile. E quindi manco si indagava. Di fatto, Mani Pulite colpì solo la classe dirigente che operò dal ‘90 al ‘92. Fu una selezione, non una pulizia”.
 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.