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Sentimento e ideologia
Le contraddizioni del segretario del Pci, nascoste da un'affettuosa nostalgia
Così come per altre opere a lui dedicate, la torsione in chiave sentimentale del film “Berlinguer. A love story” allontana ogni effettiva valutazione politica della sua figura. A cominciare dal suo legame con la tradizione comunista
Il film-documentario “Berlinguer. A love story” testimonia in modo evidente le difficoltà di una parte della sinistra a fare i conti con la propria storia. Come si intuisce dal titolo, siamo di fronte a un modo di ricordarne una figura centrale tutto all’insegna della nostalgia e del rimpianto, del “quanto erano meglio i comunisti di una volta”, mettendo sempre al centro le qualità umane di quel segretario, indubbie, ma irrilevanti per formulare un giudizio storico. Non è un criterio nuovo, anzi: uno dei libri pubblicati lo scorso anno per l’anniversario della morte, una raccolta di testimonianze, si intitolava Dolcissimo Enrico. Anche in questo film c’è una torsione del racconto in chiave sentimentale, al prezzo di allontanare ogni effettiva valutazione politica della sua figura, a cominciare dal suo legame con la tradizione comunista.
Prevalgono i ricordi personali, come la commozione che prese tutto il paese di fronte alla sua morte, e una mitizzazione che enfatizza unilateralmente le critiche di Berlinguer al modello sovietico. Così svanisce il carattere contraddittorio del percorso di un politico che voleva rendere compatibili la democrazia liberale e il comunismo, ma rimaneva convinto della superiorità del modello socialista. In un congresso del Pci del 1975 ribadì nientemeno che il primato etico dei regimi dell’Est, nei quali a suo avviso esisteva “un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche sono sempre più colpite da un decadimento di idealità e valori etici”. Ancora nel 1984, a Giovanni Minoli che gli chiedeva quale fosse la personalità internazionale che più ammirava, rispose János Kádár, presidente del Consiglio dell’Ungheria comunista.
E’ per la insolubile contraddizione tra la fede comunista in cui si era formato e a cui continuava a credere, da una parte, e, dall’altra, una sostanziale adesione alle istituzioni democratiche in cui si trovava a operare, che la figura di Berlinguer presenta un carattere intimamente tragico. Una tragicità che le rievocazioni in chiave affettuosa, che sopravvalutano la portata dello “strappo” dall’Urss o che enfatizzano il carattere dell’uomo – quella sua mitezza così distante da un certo stereotipo negativo dell’italiano – non consentono invece di cogliere. E’ vero che l’ambivalenza di Berlinguer ebbe anche effetti positivi, poiché i dirigenti comunisti della generazione post togliattiana, e con loro milioni di militanti, finirono anche per questa via con il sentirsi lontani dalla realtà incarnata dai regimi dell’Est. Ma lo fecero al prezzo di rimanere prigionieri di un equivoco che non riuscirono a sciogliere; lo sciolse per loro la “grande storia”, con la caduta del Muro e la fine dell’Urss. E questo ritardo ha continuato a pesare per anni, e per certi aspetti pesa tutt’ora, sulla sinistra italiana.
Con la nuova linea dell’“alternativa democratica”, inaugurata a fine 1980, Berlinguer spinse il Pci lungo una strada senza uscita: in un libro di qualche anno fa Piero Fassino, allora segretario dei Democratici di sinistra, la definì “la deriva solipsistica” di un partito “che si rifugia in una autoconsolatoria riaffermazione di identità”, rivendicando la propria diversità – quasi genetica – rispetto alle altre forze politiche. Formatasi o rafforzatasi nella polemica con Bettino Craxi (“un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido”, come aveva scritto nel 1978 a Berlinguer il suo stretto collaboratore Tonino Tatò), quell’idea di una superiorità morale avrebbe poi caratterizzato la sinistra italiana per molti anni. Quando con l’89 crollò d’un colpo l’intera impalcatura ideologica a cui il partito, sia pur criticamente, aveva fatto riferimento, l’autorappresentazione di sé come parte migliore e onesta del paese era lì pronta a svolgere un ruolo di ideologia sostitutiva. Poi, dopo il 1994, quella torsione in chiave moralistica della politica, ridotta essenzialmente a una lotta fra onesti e disonesti, divenne il fulcro dell’opposizione a Berlusconi e a tutto ciò che si riteneva questi rappresentasse. Una delle più importanti firme di Repubblica, Mario Pirani, arrivò a scrivere a questo proposito dell’esistenza di “una cortina di ferro antropologica tra ‘popolo di destra’ e ‘popolo di sinistra’”, premessa di uno scontro politico ultimativo e senza compromessi che non ha giovato al paese e neanche, direi, alle fortune elettorali della sinistra italiana.
Era anche per questo che, in un libro di trent’anni fa, una giornalista che aveva militato nel Pci, Miriam Mafai, invitava i postcomunisti a “Dimenticare Berlinguer”, consegnandolo dunque alla storia. Con ogni evidenza il Pd e più in generale la cultura di sinistra continuano ad andare in tutt’altra direzione.