Consumare l'arte
Ci ho messo mesi a leggere “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria” di Pierluigi Panza (Guerini) e non perché sia un lettore lento (sono lento solo come scrittore) ma per l’italiano terribile da professore universitario. Mi ci sono ostinato perché Panza soffre come me la decadenza morale, e quindi funzionale, dell’arte: “L’arte viene fagocitata dalla costruzione del consenso su base finanziaria cessando di porsi come elemento di liberazione e di libera valutazione”. Sì, l’arte finanziarizzata è un elemento di costrizione, bisogna inginocchiarsi davanti al suo prezzo e fare lunghe file per vederla, senza poi ricavarne alcunché: “L’individuo consuma l’arte. Non la studia, non si fa trasformare: la consuma”. Io non vado alle mostre perché invece prendo l’arte molto sul serio, e non vorrei farmi trasformare dall’arte psichiatrica e dall’arte ideologica adesso in gran spolvero: lungi da me Van Gogh, non vorrei mi spingesse a tagliarmi un orecchio; lungi da me Ai Weiwei, non vorrei mi spingesse a ospitare un invasore in casa; lungi da me la street art, non vorrei mi spingesse a “Spaccare tutto”, titolo di un’opera della presente mostra bolognese che sarebbe una gigantesca istigazione a delinquere se lo scandalo ricercato da questo tipo di arte non fosse, come scrive Panza, soltanto una retorica.