Gnocco fritto e risotto alla milanese sono esercizi spirituali
Perché un piatto tradizionale fa sempre bene all’anima di chi lo ordina e di chi lo esegue
Sono interessato innanzitutto ai piatti di tradizione che però vorrei realizzati alla perfezione: cosa che, di norma, riesce solo ai cuochi di ambizione. Così il migliore gnocco fritto della mia vita non l’ho mangiato in una trattoria tipica ma al sofisticato Caffé Arti e Mestieri di Reggio Emilia (in carta c’era anche un “pavé di capesante marinate nella rapa rossa, umeboshi, polvere ghiacciata di melograno”: bastò non ordinarlo). A complicare le cose succede che perfino i cuochi di ambizione inciampino: il risotto alla milanese peggiore degli ultimi anni l’ho mangiato, recentemente, seduto al bistrot di Enrico Bartolini, il cuoco più stellato d’Italia. Pazienza, poche settimane prima il risotto di Luigi Taglienti, con lacrima di midollo alla brace, si era rivelato favoloso. Resta che un piatto tradizionale fa sempre bene all’anima di chi lo ordina e di chi lo esegue: connette il primo alle innumerevoli generazioni di affamati e di gourmet che lo hanno preceduto, facendolo sentire meno solo al mondo, e consente al secondo di non credersi Dio Creatore, liberandolo dalla pena del proprio egocentrismo. Gnocco fritto e risotto alla milanese (e fegato alla veneziana e carciofi alla romana e anolini in brodo e strascinati con la braciola e fava con la cicoria...) siano considerati esercizi spirituali.