Gli alberi da frutto non attraggono neppure gli sbarcati
Chilometri e chilometri, abbandonati e carichi. Mai visti tanti frutti a disposizione di chiunque fosse disposto alla modesta fatica di raccoglierli
Dal fiume Po al torrente Ongina, dall’isola Serafini, la più grande isola padana, alla villa di Giuseppe Verdi, nella pianura piacentina ho visto chilometri e chilometri di alberi da frutto abbandonati e carichi. Soprattutto prugne. Soprattutto della varietà cornalina bianca. Mai visti tanti frutti a disposizione di chiunque fosse disposto alla modesta fatica di raccoglierli. Sani, succulenti, maturi: molti sulle piante, molti già caduti a terra. Chi ha piantato quegli alberi è morto? O è troppo decrepito per occuparsene ancora? Contemporaneamente nelle città vicine i giovani africani impietosiscono le vecchie italiane all’uscita dei supermercati, campando di elemosine e pappe già pronte nelle mense. Pensare che noi cinni della periferia orientale di Bologna, fra via Mazzini, ferrovia e Lunetta Gamberini, nemmeno ai rusticani dei rami più alti consentivamo di giungere a regolare maturazione: li addentavamo ancora verdi, asprissimi. Oggi gli alberi da frutto non attraggono neppure gli sbarcati, a cui l’assistenza statale e clericale nasconde accuratamente la parola di Dio: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane”. Genesi 3,19 sia invece pubblicizzato, scritto sui muri, diffuso dagli altoparlanti: chi non raccoglie non mangia.