Si può dire di aver paura dell'islamizzazione?
Dichiarando timori egoriferiti si rischia di vincere un premio letterario, dichiarando timori altruistici si rischiano riprovazione ed emarginazione
Da tempo Simona Vinci produce una delle migliori prose italiane e adesso aggiorna e trasporta al femminile quel capolavoro che fu (e che probabilmente ancora è, basterebbe rileggerlo) “Il male oscuro” di Giuseppe Berto. Dunque “Parla, mia paura” (Einaudi) è un catalogo perfettamente sciorinato di fobie: “Paura delle automobili. Paura dei treni. Paura delle luci troppo forti. Dei luoghi troppo affollati, di quelli troppo vuoti, di quelli troppo chiusi e di quelli troppo aperti. Paura dei cinema, dei supermercati, delle poste, delle banche. Paura degli sconosciuti, paura dello sguardo degli altri, di ogni altro, paura del contatto fisico, delle telefonate”. Sono tutte paure dicibili. Paure private che possono suscitare negli interlocutori magari fastidio, però mai ostracismo: in Parlamento non esistono disegni di legge per punire la demofobia (di cui soffro anch’io, per dire).
Anch’io vorrei scrivere un libro con tutte le mie paure, per controllarle meglio. Sarebbe un elenco più lungo perché conterrebbe tutte o quasi tutte le paure di Simona e poi tre paure aggiuntive, di tipo diverso ossia paure pubbliche, politiche: la famigerata triade omofobia-islamofobia-xenofobia. Su un simile testo incomberebbe una paura ulteriore: la paura di non riuscire a pubblicare, o di non pubblicare con un editore decente. Si rifletta su questo: dichiarando paure egoriferite si rischia di vincere un premio letterario, dichiarando paure altruistiche (io temo l’islamizzazione soprattutto pensando alle donne e alle prossime generazioni) si rischiano riprovazione ed emarginazione.