Quegli chef che hanno problemi con l'ingrediente della lingua italiana
Chiamare osterie dei ristoranti di lusso vuol dire tradire la lingua madre, ossia la mamma. E finire dritto all’inferno
Il primo ingrediente sia la lingua. Non di vitello: la lingua italiana. Il cuoco Norbert Niederkofler organizza un evento in Val Badia e lo intitola, fra Veltroni e don Milani, Care’s, fottendosene non solo dell’italiano ma anche dell’autoctono idioma ladino: alla faccia del “chilometro zero vero” che a parole gli sta tanto a cuore. Il cuoco Massimo Bottura, che pure vorrei tenermi buono perché dopo la morte di Marchesi magari il numero uno è lui, insiste a violentare l’italiano chiamando Osteria ristoranti ambiziosi, vanitosi e costosi che dell’osteria (“locale di tono modesto e popolare”, Vocabolario Treccani) sono l’esatto opposto, e nella nuova Gucci Osteria di Firenze pensa di salvarsi l’anima usando ingredienti locali per confezionare hot dog e burger, tortillas e tacos. Ma se tradisci sistematicamente la lingua madre ossia la mamma finirai dritto all’inferno, te lo dice il quarto comandamento. Infine il cuoco Nino Rossi rinnova in Aspromonte un bellissimo rito, uccisione del maiale e immediata preparazione del medesimo da parte di rinomati cucinieri provenienti da tutta Italia, e lo chiama “Pig” invece di “Porcu” perché anche lui con l’ingrediente lingua italiana ha problemi da tempo: il suo ristorante ha un nome arabo, Qafiz. Cucinate come parlate, cuochi del mio Stivale.