Così il Carnevale dimostra il manicheismo del popolo italiano
Sono un uomo che anche attraverso l’abbigliamento comunica parecchio però il messaggio arriva sempre distorto
“Ma quella che maschera è?”. A Vicenza, in corso Palladio, un bambino chiede alla mamma chi rappresenta quel signore intabarrato. La maschera sono io, capitato per caso in mezzo a infantili festeggiamenti a base di coriandoli che un po’ mi infastidiscono, misantropo come sono, e un po’ mi illudono: laddove esiste un qualche retaggio del carnevale potrebbe esistere un qualche retaggio del cristianesimo... Poi mi sovviene una frase di Pasolini: “La morte non è nel non potere più comunicare, ma nel non potere più essere compresi”.
Sono un uomo che anche attraverso l’abbigliamento comunica parecchio però il messaggio arriva sempre distorto: se i bambini credono che sia una maschera, i vicentini adulti, ho saputo, pensano che sia un cantante lirico (e io odio la lirica) o un folcloristico membro della confraternita del baccalà (e io il baccalà lo mangio senza particolare entusiasmo). Siamo inoltre in campagna elettorale e questo accentua la tradizionale propensione del popolo italiano, o forse di tutti i popoli, al manicheismo.
Mai come oggi qualunque tentativo di rompere la logica binaria sembra destinato al fallimento: come si possono spiegare i mille e sottili significati del tabarro a persone che nel 2018 riducono il mondo alla divisione fascisti/antifascisti? Dunque sperimento la morte in vita e le Ceneri a carnevale: polvere ancora non sono ma sono già coriandolo.