Preghiera per il risorgimento del vino sfuso
Perché fuori dalle vinerie si beve malissimo? Il paradiso è semplice: basta un Sangiovese schietto servito fresco e in bicchieri senza stelo
Contro il vino in bottiglia, per il vino sfuso. Traversando Milano Sud senza mai entrare in Milano Centro, da uno show-room di moda a uno studio di architettura, dal pranzo in albergo a quattro stelle all’aperitivo in quello che sembrava uno dei migliori bar fra Porta Romana e Rogoredo, e sempre bevendo malissimo, mi sono domandato: perché, nell’Italia produttrice di vino buonissimo, se non si trova un locale specializzato (osteria, vineria...) si finisce col bere invariabilmente vino indegno? Ovvio che poi il consumo continui a calare e che la gente normale beva birra e cocktail: il vino che si trova nei posti normali non si riesce a deglutire. Non è questione di prezzo, anzi: nel mondo del vino esiste una stretta correlazione grevità/prezzo. Forse è il mito sommelieristico e pseudo-elitistico del vino in bottiglia ad avere semidistrutto il consumo del vino: il bicchiere imbevibile mi viene sempre versato da bottiglie, sempre tappate con pomposo sughero, spesso corredate da pompose etichette DOC... Chiacchiere e distintivi non mancano mai quando manca il piacere. Traversando Milano Sud senza mai entrare in Milano Centro e sempre bevendo malissimo, prego per il risorgimento del vino sfuso, per trovare in ogni baretto d’Italia un Sangiovese schietto come lo Sfusone di Calonga che ho bevuto in Romagna, o un altro rosso che non sia oberato dal packaging, di qualsivoglia provenienza purché semplice, sano, leggero, servito fresco (massimo 15 gradi!) in bicchieri senza stelo. Il paradiso è semplice.