Se non mi sono mai messo in fila al Louvre è solo grazie a Ieoh Ming Pei
Le piramidi, che siano quelle egizie o quella del museo di Parigi, mi hanno sempre dato un'idea di schiavitù
Adesso che è morto voglio ringraziare Ieoh Ming Pei: se sono un uomo così elegante lo devo anche lui. Mi trovavo a Parigi per ragioni famigliari (mai un giorno di vacanza o di turismo nella mia vita, l’ho appena detto che sono un uomo elegante) e a un certo punto vidi il Louvre. La vetrosa piramide di Pei mi fece passare la tentazione di entrarci. Più che i faraoni e i massoni, le piramidi mi ricordano la schiavitù: quella degli schiavi obbligati a costruirle, quella dei turisti obbligati a visitarle. C’è qualcosa di irrimediabilmente totalitario nelle piramidi e pure nella triste piramide del Louvre che Roberto Peregalli definisce “frattura insanabile, luogo esteticamente simile a un moderno aeroporto del Medio Oriente”. C’è molta hybris nella Cour Napoléon, giustamente dedicata a un tiranno, dove la piramide si innalza e i turisti sprofondano: l’assolutismo della monarchia francese che spianò la strada alla Rivoluzione, l’assolutismo della Rivoluzione che ne fece un museo esorbitante riempiendolo di quadri rubati in mezza Europa, l’assolutismo dell’architettura modernista ben rappresentata dal defunto architetto cino-americano… Adesso che è morto voglio ringraziare Ieoh Ming Pei: se non mi sono mai messo in fila per vedere la Gioconda, che non è un’opera d’arte bensì un idolo, lo devo anche a lui.