La preziosa eredità letteraria di Luciano De Crescenzo
La morte dell'ingegnere filosofo deve essere un'esortazione per rileggere i suoi libri
Lessi i suoi libri e andai a trovarlo in via Tor de’ Conti, tra via Cavour e i Fori, e perse un mucchio di tempo con qualcuno che non gli sarebbe servito a niente (nemmeno scrivevo sui giornali, allora) e che si ostinava, per fissazione neo-borbonica, a dargli del voi. Anche lui aveva letto molto: altrimenti libri come “Storia della filosofia greca” non si possono scrivere. Ma non lo faceva pesare perché era un ingegnere, non un professore. Sulle sue pagine mi invaghii di Napoli (poi mi passò), mi entusiasmai per il matematico dandy Renato Caccioppoli (poi mi passò), mi convinsi che la filosofia o è greca o non è (questa non mi è passata). “Figlio di persone antiche”, come si definì poeticamente, era uomo quasi altrettanto antico e dunque libero: leggetevi nell’autobiografia i brani sui casini e poi andatevi a vedere su YouTube (“Tagli, ritagli e frattaglie”, 1981) come esamina, in modalità oggi proibita, Lory Del Santo ventiduenne in minigonna.
Credo di dovere a lui, oltre che ovviamente a Orazio, l’avere scelto Epicuro e non Platone. Posso dunque sperare che abbia affrontato l’ultima fase della sua lunga vita alla maniera del filosofo di Samo: “Perché avere paura della morte? Quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è la morte non ci siamo noi”. E comunque, adesso che Luciano De Crescenzo non c’è più, ci sono i suoi libri. Quest’estate si rileggano.