La religione come un tormento, una febbre, un sogno
Io lo capisco benissimo il protagonista del libro di Alberto Garlini: un ebreo zelota e dunque zelante, un uomo diviso fra miseria e preghiera, patriottismo e dubbio
“Sapevo che Dio era in me, e divenni diffidente, egoista e meschino, perché volevo proteggere il mio tesoro di purezza davanti al caos che regnava alla fine dei tempi”. Io lo capisco benissimo il protagonista del libro di Alberto Garlini, “Il fico di Betania” (Aboca): un ebreo zelota e dunque zelante, un sicario che aveva ucciso degli ebrei collaborazionisti, complici dell’occupante romano, un uomo diviso fra miseria e preghiera, esaltazione e sconforto, patriottismo e dubbio. E inoltre il proprietario del fico che Gesù, in un episodio evangelico fra i più sconcertanti, maledisse e seccò. Un grosso danno per un piccolo contadino. E un motivo di ulteriore smarrimento. “Non mi piacciono i vivi, nemmeno gli ebrei”. “Il fico di Betania” è un frutto raro nel tempo della religione come dialogo e pace: sia lodato Garlini che romanzescamente descrive la religione come conflitto con il mondo e con sé stessi, come una febbre, un tormento, un sogno.