Severino, l'uomo che ci ha mostrato la morte come cosa più desiderabile del nichilismo
Riposi in pace quello che fino a ieri era il più grande filosofo italiano vivente
Era vecchissimo ma era avantissimo, Emanuele Severino. Proprio l’altra sera bevevo con Luca Sommi al Tabarro e parlavamo dell’accelerazione dei tempi, della rapida trasformazione dei media, dell’interruzione della trasmissione culturale, evidentissima a chiunque non abbia gli occhi foderati di prosciutto (l’interruzione della trasmissione culturale non risiede nell’ignoranza dei ventenni circa Craxi, qui non vedo il problema, e nemmeno nell’ignoranza dei ventenni circa Fellini, qui vedo il problema ma non la tragedia: risiede nell’ignoranza dei ventenni circa Gesù, e qui vedo la tragedia). Inevitabilmente abbiamo finito con l’evocare Severino, fino a ieri il più grande filosofo italiano vivente, e la sua idea di Tecnica sterminatrice della Tradizione, di qualsivoglia tradizione religiosa, culturale, politica, sociale, famigliare… Sommi mi ha ricordato la fantastica immagine severiniana dell’acrobata che ha appena lasciato un trapezio, appunto la Tradizione, ma non ha ancora raggiunto il trapezio successivo, appunto la Tecnica. Quell’acrobata sospeso nel nulla siamo noi, non è più lui che la morte ha sottratto a una speculazione filosofica durissima, ossessiva, quasi sempre sconfortante ma non in quell’intervista dell’anno scorso (una delle ultime se non l’ultima, rilasciata a Vita) conclusa così: “Avvicinarsi alla morte è avvicinarsi alla Gioia”. Riposi in pace chi ci ha mostrato la guerra che le macchine muovono all’uomo e, infine, la morte come cosa più desiderabile del nichilismo.