Dopo il virus riscopriremo la cucina regionale? Non ci conto
Se pure trovi gli ingredienti, dove li trovi i clienti che ordinano frittelle di sanguinaccio e riso col polmone? Bisognava amarla quand’era viva, la tradizione
Cuochi e gastronomi dicono che tornerà la tradizione, che nel dopovirus riscopriremo la cucina regionale, le ricette della nonna. Fosse vero. Ma non ci conto. In attesa della riapertura dei ristoranti (la riapertura vera: consegne e asporto mi mettono tristezza) sono andato a riguardare i ricettari anni Cinquanta e Sessanta e ho capito che per quella cucina non ci sono più gli ingredienti né i clienti. Comincio dal sublime: lo stato ha vietato del tutto i datteri di mare, il delfino (già ingrediente del “cappun magru” ligure), la tartaruga (già ingrediente della “zuppa di tartaruga” toscana), e quasi del tutto il novellame e il sangue di maiale. Beccafichi proibiti, allodole e tordi non completamente ma provate a trovarne. Fino al boom economico i ricettari pullulavano di rane, oggi irreperibili. Le lumache da frequenti si sono fatte rarissime. Il pesce più diffuso era l’anguilla: semiestinta. Al sud si mangiava quasi solo carne ovina, ora l’agnello per Pasqua lo devi prenotare e se vuoi un castrato te lo devi castrare tu. Che poi, anche se trovi gli ingredienti, dove li trovi i clienti che ordinano frittelle di sanguinaccio e riso col polmone? A parte le frattaglie: che fine ha fatto la polenta? E la panada, il pancotto, i cardi, la scorzonera, le rape? Bisognava amarla quand’era viva, la tradizione.