preghiera
Un brindisi in memoria di Raffaele La Capria
Non potendo emulare il tuffo che racconta nel suo romanzo, il massimo che posso fare è godere (insieme a lui) di un buon bicchiere di Fiano d'Avellino
Cosa posso fare per onorare il grande Raffaele La Capria? Non certo ricordare microscopici aneddoti di un lontano incontro. Dovrei invece tuffarmi da Palazzo Donn’Anna, il palazzo coprotagonista di Ferito a morte, lanciarmi da quella mitologica mole tufacea come faceva lui (“A volte sotto la terrazza passavano gli amici con la barca, e io con un tuffo a volo d’angelo saltavo dalla terrazza e li raggiungevo”), ma non so tuffarmi, figuriamoci a volo d’angelo, e comunque non sono a Napoli.
Dovrei mangiare una spigola, il pesce che, vivo, apre il formidabile romanzo e che qualche pagina dopo compare, bollito, servito con la maionese, ma disgraziatamente mi trovo in Val Padana e qui le spigole le chiamano branzini e giacciono puzzolenti nelle migliori pescherie. E allora, che fare? Memore di un Fiano di Avellino freddo bevuto con esplicito godimento in L’estro quotidiano (pagina 88) giro sotto il sole a picco le enoteche di mezza città e infine, alla terza sudata stazione, lo trovo, lo compro, lo ghiaccio, lo bevo alzando il calice all’adorabile edonista napoletano, all’impolitico, e dunque conservatore, estimatore di Orwell, Aron, Camus, all’inventore della favolosa, celeste, immensamente augurabile “bella giornata”.