La rimozione
L’11 marzo 1972 era un sabato, a piazza della Scala e in tutto il resto del mondo. Solo che a Piazza della Scala, per un milanese che si chiamava Giuseppe Tavecchio, sessant’anni, pensionato, il tempò si fermò per sempre. Alle cinque e dieci del pomeriggio, all’angolo tra via Manzoni e via Verdi, fu colpito a morte durante una manifestazione. Una di quelle manifestazioni che da tre anni erano diventate fatto quotidiano in città, e nel resto del mondo. Ma che a Milano a poco a poco (o in fretta in fretta) erano diventate sempre più violente: “Tre anni di lotta ce l’hanno insegnato, uccidere un fascista non è reato”. Mentre dall’altra parte si poteva urlare: “L’ebreo è sempre reo”. La mattina di quel sabato forse il signor Tavecchio non aveva letto il giornale, con la notizia che “i grupposcoli della sinistra extraparlamentare” (il Corriere) avevano confermato una loro manifestazione “per la liberazione immediata di Pietro Valpreda”. Mentre gruppi della destra avevano programmato un comizio, sempre in centro. Il rischio di incidenti avrebbe dovuto essere scongiurato dal divieto della Questura circa lo svolgimento contemporaneo di manifestazioni di opposto estremismo. Ma la “decisione di cercare lo scontro a tutti i costi” era già stata presa da giorni, tra i capi delle varie organizzazioni. Il pomeriggio di quel sabato, il signor Tavecchio, che abita nella periferia sud-est di Milano, a piazzale Martini, decide di prendere il tram, il 13, e andare in centro, dietro alla Scala. Precisamente in via del Monte di Pietà, dal suo vecchio macellaio di fiducia. Il percorso di Giuseppe Tavecchio punta inconsapevole verso un collo di bottiglia fatale, tra il Castello sforzesco, dove sta per finire il turbolento comizio della destra, e via Mercato, dove la manifestazione della sinistra sta accendendo i primi fuochi di molotov. Il puzzo dei lacrimogeni è già nell’aria. Comprate le sue fettine di vitello, Tavecchio sta tornando verso piazza della Scala, lungo via Verdi. Alcuni ragazzi con caschi e fazzoletti stanno trasformando alcune auto in barricate. Così Tavecchio gira l’angolo, poi imbocca via Manzoni. Quando arriva alla piazza, è scoppiato l’inferno. Sgommano le camionette della Polizia, che si dirigono verso altri scontri in piazza Duomo, e verso la sede del Corriere in via Solferino, presa d’assalto. Il signor Tavecchio, in un attimo di calma sospesa, decide di attraversare la strada. Nello stesso istante, dentro una camionetta, si dà l’ordine di sparare due lacrimogeni. Il secondo, non si sa perché, parte ad altezza uomo. All’altezza della nuca di Giuseppe Tavecchio, che “cade sul pavé in mezzo all’attraversamento pedonale”.
Andrea Kerbaker è uno scrittore e un umanista sensibile, che ama molto Milano, un bibliofilo raffinato. Ha scritto “La rimozione - Storia di Giuseppe Tavecchio, vittima dimenticata degli anni di piombo” (Marsilio, 126 pagine, 15 euro) un po’ per rendere omaggio a una vittima sconosciuta della violenza politica e del caso (e del caos), un po’ per non perdere la memoria di una città, dei suoi luoghi, dei suoi protagonisti. Il suo è un viaggio pacato, quasi sottovoce, nelle vie, le istituzioni, le pagine dei giornali, il clima politico di quei primi anni 70. E i fatti, le ricostruzioni minuziose, compreso il resoconto della visita a casa dei figli della vittima, così tanti anni dopo, parlano da sé. A quella morte accidentale seguì un processo poco seguito. Una condanna lieve in primo grado per due agenti, annullata in Appello “perché il fatto non costituisce reato”. Non esiste una lapide all’angolo di piazza della Scala che ricordi Giuseppe Tavecchio, passante che avrebbe compiuto sessant’anni, ucciso quel sabato pomeriggio del 1972. Un bel capitolo del libro si intitola “Geografia delle lapidi”, è una passeggiata significativa dentro la storia di Milano e dentro alcune sue “rimozioni” dolorose e silenziose.
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