Staiti di Cuddia
Cosa insegna la storia nobile e antimoderna del “barone nero” sulla destra di Milano (e d’Italia)
Negli anni Settanta Ignazio La Russa iniziava le riunioni della segreteria provinciale del Msi di Milano dicendo: “Saluto i camerati e anche Staiti che non è stato invitato”. “Alla quarta volta mi alzai e gli allungai quattro ceffoni: ‘Io l’invito me lo sono preso, e tu ti tieni le sberle’”. Il ricordo la dice lunga non solo di una personale inimicizia ma anche sulla storia della destra milanese. Storia di un’eterna divisione tra gli ideali nostalgici, guerreschi, maneschi e antimoderni (poi diventeranno anti-stato, antiamericani, antiglobalisti) e quelli invece che già pensavano alla politica-politica. Spiega perché, quando Alleanza nazionale si accasò con Berlusconi, e divenne forza di governo, uno come Tomaso Staiti di Cuddia – che si era iscritto al Msi nel ’49, era stato segretario provinciale del partito e poi deputato e nella segreteria nazionale – passò all’opposizione. E non solo lui.
Spiega perché non gli andò mai giù non solo La Russa, ma nemmeno Gianfranco Fini (“un debole e senza coraggio che mai avrebbe giocato in grande”), la Santanchè, e tantomeno il Cav. E spiega un po’ anche perché quella destra nata antimoderna e nostalgica (Pino Romualdi il suo antico riferimento, Giorgio Almirante un rispettato avversario politico) sia poi diventata la destra antiamericana (“Avevamo gli stessi nemici. Il capitalismo e gli americani. Lo sapevamo, ma eravamo costretti a combatterci”, ha detto di lui Mario Capanna, il comandante nemico nella Milano di quegli anni). E anche perché, negli ultimi tempi, un guascone fiero e mai volgare come lui fosse finito a dar ragione a Beppe Grillo.
Ma i migliori anni della sua vita, che ovviamente non coincidono con i migliori anni di Milano, né dell’Italia, sono gli anni Settanta che vedono il suo debutto in politica, nella destra che era l’altra tribù, la tribù ostracizzata, ma che con le sue leve giovani si era presa manu militari Piazza San Babila. Con le sue Barrows ai piedi e e i suoi ray-ban sugli occhi, e le spranghe nascoste sotto i giacconi così come gli altri le nascondevano sotto l’eskimo. Per quella generazione lui era più che un comandante, era una guida e un divo, un modello. Ma di quelli non imitabili. Lui nobile di stirpe e di modi, lui colto di libri e linguaggio, lui a metà tra politica e bella vita, quella degli anni Sessanta tra città e Portofino, di donne che si chiamavano Capucine o Rosa Fumetto. Lui votato alle imprese gagliarde e non sempre riuscite, come quando col martello pneumatico scheggiò il brutto monumento a Pertini, il cubo di Aldo Rossi in via Manzoni. Nel 1975 aveva annunciato a Palazzo Marino, l’assassinio di Sergio Ramelli, sprangato da un commando di Avanguardia operaia: “Le mie parole furono sommerse dai festeggiamenti. Agghiacciante”. Così anni dopo elogiò Carlo Tognoli, “il miglior sindaco di Milano”, che aveva reso omaggio “a tutti i morti, sia di sinistra sia di destra”. Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse era nato nel 1932, discendente di una nobile famiglia di Trapani, e aveva fatto studi geologici. Nel 2006 si era regalato una bella autobiografia, “Confessione di un fazioso”. E’ morto il primo marzo, a Milano.
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