Franco Russoli

Uh, la grande Brera

Maurizio Crippa

Leggere Franco Russoli e scoprire che si sono persi 40 anni. E che oggi i freni sono gli stessi di allora

La verità è che quando morì, improvvisamente a soli 54 anni nel 1977, molti tirarono un sospiro di sollievo, nella community artistica e (soprattutto) accademica di Milano. Non che l’uomo, questo fiorentino che nel 1950 si era trasferito a Milano alla Sovrintendenza alle Gallerie della Lombardia, fomentasse inimicizie. Ma era vulcanico, esigente e – ciò che creava attriti – era troppo avanti nella visione di cosa fossero l’arte e la sua conservazione, di cosa dovesse e potesse essere un grande museo nazionale come la Pinacoteca di Brera. Avanti di quarant’anni giusti. Se è vero che l’idea della “Grande Brera” di cui con poco costrutto si parla da decenni – ritornata d’attualità con la riforma Franceschini e l’arrivo, lo scorso anno, del direttore James Bradburne che l’ha rilanciata – l’aveva coniata proprio Franco Russoli.

 

Franco Russoli che giovanissimo aveva partecipato alla ricostruzione, “come era e dove era”, del Poldi Pezzoli dopo le bombe della guerra e che, sempre giovanissimo, nel 1957 divenne direttore della Pinacoteca di Brera. Organizzatore, colto, dotato di una sua visione utopica e concreta. Il suo progetto di “Grande Brera” significava un museo aperto, che si confrontasse con la realtà esterna coinvolgendo il pubblico di fasce sociali e interessi culturali diversi. Brera come luogo di civiltà e cittadinanza, e il museo come un luogo per riscoprire le origini della nostra civiltà. Idee che dette oggi sembrano l’abc di ogni Mibac, negli anni 60 no. Idee che, fossero state messe in pratica allora, avrebbero dotato Milano (l’Italia) di un grande museo di livello internazionale con decenni di anticipo. Mentre ancora – seppur molto si muove, sono stati appena diffusi i dati della crescita del 30 per cento dei visitatori nell’anno passato – Brera resta un potenziale sottovalutato in sé e come punto attrattivo della città. Quarant’anni fa Russoli diceva che “un museo non è soltanto luogo sacrale, cassaforte o archivio per gli addetti ai lavori”. E che bisognava cercare “in ogni modo di far intervenire il museo in tutte la attività culturali dell’ambiente in cui funziona” (oggi si parla molto, ad esempio, del “sistema” milanese-nazionale da integrare). Ma Ruspoli non era un “disruptor”, tutt’altro. Contro coloro che accusavano i suoi progetti di “espansionismo megalomane della Pinacoteca”, a scapito ad esempio dell’Accademia di Belle Arti (ohibò: è esattamente la stessa accusa che i professori e gli studenti fanno nel 2017, a fronte del progetto messo a punto col governo di una nuova sede per l’ateneo), sosteneva l’esatto contrario: pensava a un sistema integrato, in cui l’istruzione e il ruolo della didattica rimanesse un punto di forza. Si sono persi decenni, è il primo pensiero quando si leggono le riflessioni di Russoli. Uno che parlava, nel 1968, dell’acquisizione di Palazzo Citterio per consentire di ampliare e aprire alle collezioni moderne la Pinacoteca. Bene: lo spazio espositivo di Palazzo Citterio-Brera aprirà i battenti nel 2018.

 

Ieri James Bradburne era a Novate, a Casa Testori. Nella casa, ironicamente, di un gran milanese che al progetto della Grande Brera era contrario. Era lì a parlare, appunto, di un “Ritorno al futuro”. Che è il titolo del saggio introduttivo da lui scritto per un libro appena edito da Skira, Senza utopia non si fa la realtà – Scritti sul museo (1952-1977) che raccoglie il pensiero di Franco Russoli. La cosa più stupefacente è costatare che gli scogli con cui oggi si scontra l’idea di una “rivoluzione” di Brera per farne un grande polo di valenza internazionale – ampliamento degli spazi, funzione-museo e ateneo, persino le planimetrie – sono esattamente gli stessi con cui dovette combattere oltre quarant’anni fa il grande direttore. Erano l’opposizione del mondo accademico e di un certo milieu delle sovrintendenze, era un’idea di conservazione museale fine a se stessa. Quarant’anni.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"