La Via Crucis di Previati
Il corpo a corpo col Condannato di Gaetano Previati, maestro del divisionismo. La mostra al Museo Diocesano di Milano
Viste senza soluzione di continuità, appaiate una dopo l’altra, sono una lunga onda di rosso drammatico, duro, assoluto. Il rosso è il colore dei re, ma soprattutto è il colore del sangue e della passione intesa come patimento, come sofferenza indicibile. E così le aveva immaginate e volute, prima per se stesso e poi per gli occhi del pubblico, il loro creatore Gaetano Previati. Per se stesso, innanzitutto. Maestro del divisionismo (ma qui siamo già un po’ oltre, c’è quasi odore di espressionismo), ferrarese forgiato all’Accademia di Brera e dalla Scapigliatura, nel 1901 Previati aveva 49 anni ed era un artista affermato, nonché un uomo gioviale, tranquillo. Fu allora che acquistò quattordici tele di grandi dimensioni e una croce, e si chiuse nel suo studio in piazza Duomo per iniziare un lungo corpo a corpo con la Via Crucis, con questo tema sacro e a un tempo universale: la sofferenza del Giusto. Non era il primo incontro, aveva già realizzato una grande Via Crucis per il cimitero di Castano Primo, ora nel museo civico locale. Ma questa volta era un fatto evidentemente personale. Profondamente religioso, ma non un codino, forse per qualcuno in odore di modernismo (avrebbe dato un buon impulso al rinnovamento dell’arte sacra), rimase chiuso nel suo studio per dieci mesi. I testimoni raccontano che, quando perdeva l’ispirazione, la croce se la caricava sulle spalle. E stava lì, a lungo, in una sorta di dolorosa immedesimazione fisica.
La prima esposizione della Via Crucis fu nel 1902, a Torino. Previati volle i suoi dipinti così, appaiati in sequenza, come li vediamo ora al Museo Diocesano di Milano. E come non li vede praticamente quasi mai nessuno, perché quella che oggi viene chiamata la “Via Crucis Vaticana” di Previati ha una storia particolare. E’ un’opera enorme (156 cm x 121 a tavola) , fuori formato per la collocazione in qualsiasi chiesa. E fuori iconologia per i tempi. Nata senza alcuna committenza, come una devozione privata, con una sensibilità eminentemente moderna (da Matisse a Fontana, sono tantissimi gli artisti che si sono misurati con il tema), non riuscì mai ad essere venduta e passò di donazione in donazione. Finché nei primissimi anni 70 arrivò a Roma, dono dell’industriale lombardo Fabio Ponti, per entrare della nascente Collezione d’arte religiosa moderna dei Musei Vaticani voluta da Paolo VI, che di arte contemporanea era raffinato conoscitore. Ma forse per le dimensioni, forse per altri motivi, non è mai stata esposta nella Collezione ed è tuttora collocata, invisibile ai più, negli appartamenti privati del Papa. Ora, grazie alla collaborazione tra i Musei Vaticani e il Diocesano (due donne a dirigerli, Barbara Jatta e Nadia Righi) le quattordici stazioni appena restaurate di Gaetano Previati sono tornate a Milano. L’occasione di vederle è un colpo per gli occhi, e anche un po’ cuore.
Non c’è bisogno di muoversi, di seguire il perimetro dei muri di una chiesa, di “camminare dietro”, per immedesimarsi nella sofferenza cosmica di questo Christus Patiens. Guardandola, si ha quasi l’impressione che voglia venirti addosso, o che il Condannato stia passando lì, fuori da una finestra, tanto l’immagine è incombente, zoomata. Esattamente l’effetto che Previati voleva sentire su di sé, e trasmettere agli osservatori. Micol Forti, responsabile delle Gallerie dei Musei Vaticani, presentando l’opera a Milano ha giustamente notato che è come vedere dei fotogrammi che scorrono, il cinema è lì, appena nato in quegli anni.
Ma non è uno spettacolino cui assistere. Il critico Nino Barbantini la definì un’opera “sgradevole” (del resto, l’Uomo dei dolori “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi”). E il “brutto”, ciò che è urtante ma capace di scardinare le abitudini iconografiche con una richiesta di eticità, di verità, sarà di lì a poco la cifra interiore di tutta l’arte del Novecento. Anche di quella sacra. Fino al 20 maggio 2018.
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