Musica Ligéra
Storia di osterie, malavita, musica, artisti e fatti milanesi narrata da un vero protagonista, il “Pelé”
“Vuoi una sigaretta, fioeù? Grazie signore, volentieri. Mi chiamo Pippo. Io Pelè. Pelè? Sì è un soprannome, me l’ha dato il prete perché gioco bene a calcio”. “Abbiamo fumato le nostre sigarette in silenzio. D’un tratto, con una voce sofferta, bassa e chiara, il signor Pippo si è messo a cantare la canzone della Rosetta. Era la prima volta che la sentivo”. Poi ha fatto un passo avanti verso la strada, fissando i Navigli: “La Rosetta mi ha dato le più belle notti d’amore della mia vita”. E’ uno dei primi ricordi, dentro a un portone sotto un’acquazzone, del Pelè, il narratore di questa storia. La canzone della Rosetta (“Hanno ammazzato un angelo”), è la bandiera della musica della Mala. L’avevano ammazzata quelli della questura, o forse quelli della Mano Nera, e “tutta la malavita / era vestita in nero / per ’compagnar Rosetta / Rosetta al cimitero”.
C’è una disputa filologica e storiografica a riguardo dell’autenticità della storia, che non interessa a nessuno ma è significativa per capire la Milano popolare di molti decenni fa, pre industriale e pre immigrazione, che aveva una geografia e una idrografia completamente diverse. La versione del Pelè è insieme inverosimile e assolutamente autentica, come a tutte le storie che mescolano musica, osterie e malavita di piccolo cabotaggio: a Milano si chiamava la “Ligéra”, e anche qui esistono manuali di filologia fantastica sul significato della parola, ma alla fine bello credere che c’entri qualcosa col prendere la vita alla leggera, un mondo un po’ picaresco. La sua storia “di osteria, malavita e nostalgia” il Pelè la racconta in prima persona singolare. Per l’anagrafe si chiama Giancarlo Peroncini e ha trascorso la maggior parte dei suoi 75 anni nella Ligéra, e in una rete di storie e personaggi e luoghi che non ci sono più. Ma soprattutto nel mondo delle osterie milanesi, un “genere di locale” che sta curiosamente vivendo un momento di rinascita vintage.
Ma quelle erano le originali, come la celeberrima Briosca di via Ascanio Sforza, con il glicine e il campo da bocce, o la stessa Osteria del Pelè, quando finalmente si decise ad aprire il suo locale. Cucirgli addosso una professione, non è facile. Diciamo che siccome il crimine non è mai stato il suo forte, più che altro una rete amicale e condivisa di quella che oggi un sociologo chiamerebbe economia informale, il Pelè è stato soprattutto un cantante popolare dialettale, lui preferisce “un “cuntastorie”. E musicista autodidatta di un suo particolare strumento, che ancora oggi manovra, detto “bidofono” oppure “tollofono”, cioè un sostituto del basso fatto con una grande bidone metallico (tolla), un manico di scopa e una corda. Cantante, autore i canzoni, allievo e maestro di molti, compagno d’avventura di artisti come Walter Valdi, Didi Martinez e tanti altri. Lui però non ha varcato la soglia di quella popolarità raggiunta dai grandi della canzone milanese, come Nanni Svampa e Lino Patruno, e dai grandissimi che da quel mondo sono passati a un’altra arte, a un’altra musica: Gaber e Jannacci su tutti. Ma anche Celentano e il suo Clan erano partiti di lì, dai locali dove si suonava e si faceva cabaret dal vivo. Ogni sera tra litri infiniti di vino, molto più Barbera che Champagne, i quattro piatti della cucina povera e una fauna umana la più differente, più o meno alla deriva.
Di tutto questo racconta Giancarlo Peroncini in un libro da poco uscito, ritmato sul bidonofono continuo della malinconia ma pieno di scoperte e di una visione e memoria periferica di Milano davvero invidiabili. “La ballata del Pelè” ed è scritto insieme a Roberto Farina. Ultimo lavoro di un trittico, per Farina dedicato a personaggi milanesi. Lo pubblica Milieu editore (16,90 euro) e c’è anche un cd allegato. Ripercorrerla tutta, la storia, si rischia di perdersi in nomi, nomignoli e dettagli. Ma leggerla è un viaggio. Si parte dalle case popolari e i cortili che sconfinavano verso Rozzano nel Dopoguerra, si gira in bici e in Lambretta per le cerchie lontane dal centro. Si riparte dall’osteria del Pinza a Gratosoglio, in cui il Pelè muove i primi passi in questa movida della necessità. Il Pinza, il Luciano Sada, è quello che nel 1967 cambia zona e va ad aprire la Briosca. Che nel clima sociale di quegli anni diventa un punto di riferimento per la Ligéra, per gli studenti in cerca di bohème e rivoluzione, per artisti, cabarettisti musicisti che di lì a poco avrebbero spiccato il volo. E per un popolo operaio e artigiano per il quale l’osteria continuava a essere, come da sempre, la seconda casa, la cucina di sostentamento e il luogo dove si cantava, in dialetto, e si ascoltava cantare.
Poi vengono, come un’eco distante, gli anni della violenza e del terrorismo, ma soprattutto gli anni in cui cambia il tessuto economico, sociale e pure quello criminale. Quando arrivano la droga e la criminalità vera, Epaminonda e Turatello. Scorrono altri personaggi, tra arte politica e cultura, scorrono le fotografie del cambiamento della metropoli. Ma il gioco si faceva pesante, e la Ligéra si tirò da parte, consolandosi in sbronze, canzoni e nostalgia.
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