Sant'Ambrogio in sordina
Il secondo “discorso alla città” di Mario Delpini e la sua idea di chiesa, e di società civile
Ma che tipo di successore di Ambrogio è, Mario Delpini, il vescovo che ieri sera ha tenuto il suo secondo “discorso alla città” durante il rito dei Primi Vesperi per la festa del santo patrono? Lo scorso anno, al suo debutto come guida della chiesa ambrosiana, aveva intitolato il suo testo al “patto di buon vicinato” tra la comunità cristiana e la città secolare. Un discorso pragmatico, a suo modo politico – come è del resto tradizione dell’omelia di Sant’Ambrogio, che prima di divenire vescovo fu a Milano un funzionario imperiale di alto rango – improntato a una sorta di giudizioso anti populismo, ai toni bassi, all’idea di una coabitazione in cui tutte le spigolosità che inevitabilmente segnano la convivenza tra le “due città”, come direbbe Agostino, si stemperavano in un appello alle buone regole e alle buone pratiche.
Il discorso di oggi accentua la direzione, si potrebbe dire anche ulteriormente laicizzando il tono e il punto di vista. Il titolo è “Autorizzati a pensare-Visione e ragione per il bene comune”. Lo spunto è la Lettera di Giacomo, quando critica la sapienza “terrestre, materiale, diabolica” che genera “gelosia e spirito di contesa”. Non un cattivo spunto, per muovere una critica generale a una società determinata “dall’emotività e dalla suscettibilità”, da comportamenti animosi e conflittuali, che disprezzano non solo il dialogo (o le buone maniere) ma proprio la razionalità, la logica del pensiero. Insomma il becerume social populista non ha il benestare del vescovo di Milano.
Ma, appunto, che tipo di vescovo di Milano è Delpini, a leggerlo attraverso questi suoi discorsi, e lo stile dei suoi discorsi? Professore classicista, modesto nei tratti ma ironico quando vuole, Delpini non è un cattivo oratore. È un oratore più in levare che in battere, diciamo. Le volte romaniche di Sant’Ambrogio echeggiano ancora dei discorsi fitti di esegesi, di citazioni, di perifrasi dei suoi predecessori. Ma anche del Martini profetico che il 6 dicembre 1990 metteva in guardia non soltanto Milano, ma tutti, dalla sfida-confronto che si prefigurava con l’islam: “Noi e l’islam”, disse senza infingimenti, con competenza e realismo. C’era ancora la Prima Repubblica, per dire.
Oppure i discorsi altrettanto fitti di riferimenti – ma più sul filosofico-antropologico – di Angelo Scola. Che nel 2011 si interrogava sulla “crisi e travaglio” all’inizio del Terzo millennio, con decine di citazioni a piè di pagina. Il discorso di Delpini parte da san Giacomo. Cita Paolo VI (Populorum Progressio) quando dice che “il mondo soffre per mancanza di pensiero” e poi cita Benedetto XVI (Caritas in Veritate), ma è appunto un commento di Ratzinger al passo di Montini. Ma c’è una logica, o uno stile, in questo. In poco più di un anno sulla cattedra di Ambrogio (e Carlo) Delpini ha tenuto – come del resto aveva promesso – un profilo eminentemente pastorale, e sommamente dialogante. Anche a costo, o volontariamente, di sparire dai radar dei media e della città “là fuori”.
Insomma la città laica, accademica, del business e dei saperi, della politica, che erano invece l’orizzonte di riferimento Martini (la Cattedra per i non credenti) o Scola (i dialoghi sulla Vita buona), e un po’ meno di Dionigi Tettamanzi. Delpini, nella sua lettera pastorale per il 2018, parla di una chiesa che deve andare “in cammino verso gli altri”. In un recente incontro pubblico sul tema, ha detto che “il futuro del cattolicesimo ambrosiano dipende da come sapremo abitare il cambiamento” e che in ogni caso il suo modello di chiesa (ormai multietnica anche a Milano) non sarà mai il “modello americano” fatto di chiese “nazionali”, quella italiana, polacca, quelle latine.
Delpini ha interesse essere pastore di questa chiesa, dispersa in una città mobile e variabile, plurima. Che non ha bisogno di essere disturbata a livello di un dibatto culturale e politico (anche se un passaggio è proprio intitolato all’idea di “disturbare l’accademia”) ma per così dire accompagnata in un percorso di buone pratiche. Non è ovviamente un’idea basata sul niente. La terza citazione, Delpini la prende dal discorso di Benedetto XVI alla Westminster Hall, nel 2010, che pieno di fiducia nelle capacità della ragione umana, affermava che “il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire norme”, e “ancora meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione”. Questo è il tipo di vescovo, concreto ma politicamente in sordina, che Delpini vuole essere, o almeno sembrare.
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