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Il Dizionario milanese-italiano del Circolo Filologico. Un omaggio a una lingua viva
Mentre la città si prepara a tagliare il “Panettone artistico più grande del mondo” (con certificazione Guinness World Records) nonché a candidare il celebre dolce natalizio a diventare Patrimonio immateriale dell’Unesco, ci sono anche modi più discreti, e meno “Yes Milano”, per coltivare la tradizione della città prendendosi pure in carico – fin dove si può arrivare (fino a “grippare” si arriva, grippà, ma software non ha traduzione) – il milanesi inteso come lingua. E la sua evoluzione. Perché il milanese esiste ancora, è persino praticato (molto in musica, un po’ in letteratura) sebbene Milano – e quantomeno la sua area metropolitana – sia forse la città che a partire dagli anni Sessanta del Novecento ha perduto di più la sua parlata. A causa dell’immigrazione, ma anche di una vocazione: quella di essere inclusiva, pluriculturale e persino plurilinguistica. Si diventa milanesi, e la lingua diventa una koiné in cui, più o meno, vale tutto. E’ successo meno in Veneto, per esempio, mentre Roma la sua trasformazione linguistica l’aveva già avuta nel Rinascimento, con l’invasione dei toscani. Milano ha avuto una storia linguistica diversa. Un paio d’anni persino il britannico Economist aveva dedicato un articolo in omaggio della lavoro dei “folk singers” che utilizzando il “milanes” avevano da una parte preservato un patrimonio espressivo, e dall’altra lo avevano contaminato di nuovi vocaboli e modi di dire.
Si impara sui banchi di scuola, anche lontano dalla Lombardia, che Manzoni plasmò la lingua dei “Promessi sposi” tendendo sullo scrittoio, e compulsandolo ad ogni passo, il “Vocabolario milanese-italiano” di Francesco Cherubini, prima edizione nel 1814. Perché Don Lisander era, come tutti i milanesi colti del suo tempo, perfettamente bilingue: parlava milanese e francese. Tanto che si aiutava anche con il “Grand Dictionnaire français-italien” di Francesco d’Alberti di Villanuova, prima edizione nel 1826, quando gli aristocratici e gli industriosi borghesi meneghini avevano preso la buona abitudine di viaggiare per l’Europa, e Parigi era nelle mete preferite. Il “Dizionario milanese-italiano” pubblicato nel 1896 dallo scapigliato Cletto Arrighi è ancora oggi un must letterario. All’infinita sapienza dell’Ingegner Gadda nel trasformare la lingua milanese in oggetto di alta letteratura creativa sono dedicati saggi e manuali. Ma un dizionario della lingua milanese che sistemasse lessico e grafie, con lo scopo di presentare “la lingua dialettale milanese viva all’inizio del terzo millennio”, mancava. Anzi un dizionario simile mancava da quasi un secolo.
Il Dizionario milanese-italiano e italiano-milanese pubblicato ora da Vallardi (29 euro e 50) è venuto a riempire questa lunga assenza. Ci sono in commercio tanti dizionari e vocabolarietti meneghini, ce n’è persino online, ma questa è un’opera di un altro genere, completa per quanto lo può essere un lemmario di una lingua viva ma minoritaria, nella Milano di oggi. A curarlo è un’istituzione benemerita e serissima come il Circolo Filologico Milanese, fondato nel 1872: oggi è la più antica associazione culturale della città e una delle prime in Italia. Nel suo statuto, c’è tutt’altro che il localismo o il folclore, ma “promuovere e diffondere la cultura e particolarmente lo studio delle lingue e delle civiltà straniere”. L’opera è stata curata da Claudio Beretta e Cesare Comoletti, entrambi attivi membri del Circolo. Ci sono voluti anni di lavoro, ci sono tavole grammaticali, declinazioni verbali pure dei verbi irregolari, 40 mila voci, esempi e modi di dire, come è giusto per un dizionario così. Ma basta sfogliarlo, scovare i neologismi, per capire perché Milano è la città che è: persino nella sua lingua ancora parlata.
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