Venanzio Gibillini, uno degli ultimi
È morto a 94 anni. Sopravvissuto ai campi nazisti. La sua testimonianza semplice
“Mi chiamo Gibillini Venanzio”. Perché era un uomo semplice, di quelli che dalle scuole, da ragazzo, aveva conservato l’abitudine di mettere prima il cognome e dopo il nome. “Mi chiamo Gibillini Venanzio. Sono sopravvissuto nei campi di Flossenbürg e Dachau”. Inizia così – ma ce ne sono tante, integrali o riassunte – la trascrizione di un incontro tenuto il 25 marzo del 2002 a Nova Milanese, in provincia di Milano. Tanti ne aveva tenuti, soprattutto negli anni più recenti: scuole, biblioteche pubbliche, istituzioni di vario tipo e genere. Sempre a raccontare la stessa storia, gli stessi ricordi, le stesse persone. Partendo sempre dal principio.
Testimonianza, da mettere a verbale, non narrazione, come si direbbe adesso: “La mia storia comincia dopo l’8 settembre del 1943, quando gli alleati concedono l’Armistizio agli eserciti italiani. Io ero l’ultima classe chiamata a militare. Ero andato a militare il mese di agosto del ’43 e venuto l’8 settembre, siamo stati due giorni in caserma e poi abbiamo fatto la fuga e dopo di lì ero considerato disertore, renitente, tutti quei proclami che con la nascita della Repubblica sociale italiana mi rendevano condannabile per la fucilazione”. La parlata milanese, lo stile colloquiale e modesta, incapace di artificio retorico, di chi nella vita non è stato un intellettuale, un conferenziere. E’ stato un testimone. Uno degli ultimi testimoni dei campi di concentramento nazisti ancora vivo. Venanzio Gibillini è morto l’altro ieri, a Milano, a 94 anni, pochi giorni prima della celebrazione della Giornata della Memoria. Con lui se ne va uno degli ultimi testimoni ancora vivi dei campi di sterminio.
Aveva 19 anni, era ormai un disertore, di quelli che “già dimostravamo da che parte pendevamo”. Si infilò a lavorare al deposito locomotive di Greco Pirelli, uno dei posti perfetti per tentare qualche sabotaggio da parte dei partigiani. I sabotaggi arrivarono, pochi. Arrivarono i nazisti, “hanno fatto una retata e hanno portato a San Vittore diversi compagni”. Fu indagato come sabotatore. La sua è stata la Resistenza dei ragazzi normali. Non nata sui libri, non nata prima dalla politica, o pensando al futuro. Ma nata dai fatti, da quello che c’era davanti, che c’era da fare, da sfangare, da resistere. Non finì nei lager per motivi razziali, ma appunto tra gli oppositori politici. Un pezzo di storia tragica dentro un fiume intero di storia tragica. Lui viaggiò con quello che Italo Tibaldi, un sopravvissuto di Mauthausen che ha ricostruito con puntigliosità la storia dei “trasporti”, cioè dei treni partiti dall’Italia verso la Germania è numerato come “Trasporto 81”. Il primo partito da Bolzano con destinazione Flossenbürg, non un “carico” razziale, ma detenuti politici.
Bolzano, Flossenbürg e Dachau. Nei suoi racconti – anzi nel suo racconto unico e ininterrotto, sempre uguale, preciso e concreto, c’è tutto quello che ha vissuto, tutta la morte che ha visto. Detta con questa forza disarmante, basta leggerne un po’, che sta tutta nel ricordarla e nel saperla ridire così, con le sue parole. E’ tornato a casa scappando dalla “Marcia della morte”, il trasferimento omicida dai campi che i nazisti avevano organizzato negli ultimi giorni, nel folle progetto di spostare più oltre il confine della resa, e soprattutto di far sparire “le prove”, cioè i superstiti. Lo ha raccontato anche Primo Levi. Come a Liliana Segre, come a tanti altri, la determinazione e l’energia per intensificare gli incontri, le testimonianze, deve essergli cresciuta con la consapevolezza non solo del tempo passato, ma della difficoltà sempre maggiore a voler ricordare. Era membro dell’Associazione nazionale deportati e dell’Anpi. Nel 2017 il Consiglio comunale aveva deciso di conferirgli la massima onorificenza della città, l’Ambrogino d’oro.
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