Non per mare
Il primo rapporto in Italia sui “Corridoi umanitari” e le vie legali di accoglienza. In Cattolica
L’espressione la usiamo comunemente, intendendo una via di fuga, o una pipeline per portare cibo e medicinali a popolazioni minacciate o isolate. Ma “Corridoi umanitari” sono anche uno strumento di soccorso internazionale più preciso, anzi “un programma di trasferimento e integrazione”, regolato da precisi protocolli, di cui possono beneficiare migranti in condizione di particolare vulnerabilità e che dunque hanno diritto all’asilo e alla protezione. I “Corridoi umanitari” funzionano, sono “un’alternativa legale e sicura” alle partenze (e gli sbarchi, chi ce la fa) di profughi dall’Africa e dal medio oriente, li apprezza persino Matteo Salvini. Ma si tratta, in Italia e in Europa, di strumenti ancora sperimentali e poco analizzati nei risultati concreti. Perciò è doppiamente interessante il convegno che si svolge oggi alla Cattolica di Milano organizzato con Caritas: “Non per mare. Protezione internazionale e vie legali e sicure di ingresso”. Cornice per la presentazione del primo rapporto sui corridoi umanitari in Italia. (Ci saranno il rettore Franco Anelli, l’arcivescovo Mario Delpini, i direttori di Caritas Italiana e Ambrosiana, Francesco Marsico e Luciano Gualzetti, e un messaggio del sindaco Beppe Sala).
I “corridoi” sono progetti gestiti (e finanziati) da organizzazioni private, ma attraverso un protocollo di collaborazione con le istituzioni pubbliche. Il primo, nato nel 2015, è stato creato da Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese evangeliche e Tavola Valdese in collaborazione con i ministeri degli Esteri, della Cooperazione Internazionale e dell’Interno e ha permesso l’arrivo controllato e sicuro di circa 1.000 persone. Protocollo rinnovato nel 2017, con l’obiettivo di portare in Italia in modo regolare altre mille persone. E un terzo protocollo analogo sta per essere siglato nei prossimi mesi, con un governo diverso dai precedenti. Ma come funzionano i “corridoi” e perché vengono reputati uno strumento non solo utile ma anche metodologicamente interessante? “Perché si tratta di un progetto che non soltanto salva delle vite, ma dà una possibilità concreta di far ricominciare vite di persone e famiglie in un luogo sicuro” risponde Oliviero Forti, responsabile per l’immigrazione di Caritas italiana. Nel concreto, spiega, è un progetto sicuro perché attuato secondo uan metodologia verificata e controllata: primo step, l’individuazione “nei paesi di transito” di persone in condizioni di essere soccorse – non solo profughi di guerra o richiedenti asilo politico, ma anche persone in fuga da carestie o altre “vulnerabilità” come indicate dall’Onu. Per ognuna di queste persone in Italia Caritas attraverso le diocesi seleziona, prepara e predispone i luoghi – e la famiglie e comunità, i percorsi scolastici, l’assistenza sanitaria – che si faranno carico dell’accoglienza per tutto il periodo che servirà a ottenere i requisiti per rimanere nel paese. Numeri e dati verranno comunicati oggi, ma, anticipa Forti, “il solo fatto che i tassi di movimenti secondari di queste persone siano bassissimi significa che l’accoglienza funziona”. E questo è ovviamente una garanzia anche per lo stato.
Quello dei “Corridoi umanitari” sperimentato in Italia è un modello misto, simile ad altri meccanismi di resettlement gestiti da stati o istituzioni internazionali. Qui la particolarità è che tutto l’onere finanziario è a carico dei proponenti. A differenza di quanto accade ad esempio in paesi come il Canada, che ha una lunga tradizione in materia, in cui le community sponsorship sono finanziate, nel rispetto di precise condizioni, dal governo. E in Europa? “In Francia e in Belgio sono stati attivati questi stessi strumenti, sempre attraverso la Comunità di Sant’Egidio, le Conferenze episcopali cattoliche e le chiede evangeliche”, spiega Forti. E’ un modello studiato anche a livello dell’Unione europea, l’obiettivo è giungere costituire delle partnership così come accade con i governi nazionali.
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