Un colpo di teatro
L’addio di Escobar al Piccolo Teatro (con coro un po’ gaglioffo delle maestranze) e un’idea “da 1947”
Basta, serve “una guida all’altezza”, anzi “una figura di alto profilo culturale, intellettuale e artistico, oltre che di prestigio internazionale, in grado di restituire al Piccolo il suo ruolo di teatro pubblico e di ambasciatore della cultura italiana nel mondo”, scrissero alcuni giorni fa in una pubblica lettera al sindaco Beppe Sala e al ministro Dario Franceschini i lavoratori tutti del Piccolo Teatro di Milano. Manco dovessero dare il calcio dell’asino all’autore di un disastro, e non a Sergio Escobar, che del Piccolo, anzi della “Fondazione Piccolo Teatro di Milano Teatro d’Europa”, è stato direttore per 22 anni, non facendo esattamente male – anche sotto il profilo dei conti, che pure contano: il cda ha appena approvazione il bilancio consuntivo 2019 “in perfetto pareggio, con risultati particolarmente lusinghieri dal punto di vista artistico, di pubblico (293 mila spettatori) ed economico”. Qualche giorno dopo, si è capito che l’uscita dei lavoratori era però anche fuori tempo. Escobar aveva comunicato nei mesi scorsi al sindaco Sala – che siede in Consiglio con Attilio Fontana e Carlo Sangalli, in qualità di presidente della Camera di Commercio di Milano Monza Brianza Lodi, terzo membro sostenitore – che se ne sarebbe andato, alla scadenza, prossima, del mandato. Forse si poteva agire con più garbo istituzionale. Ovviamente, i lavoratori del teatro son preoccupati del loro futuro, la chiusura forzata sta azzoppando, se non uccidendo, anche i migliori palcoscenici d’Europa. Servono idee per il rilancio, anche al di là delle garanzie economiche messe in atto finora dal Piccolo e del sostegno messo in campo dal Mibact. Ma occorre qualcosa di più di una presa di posizione in stile sindacale.
I problemi del Piccolo Teatro, la maggiore istituzione teatrale italiana – oggi formato da tre teatri diversi e da altrettante linee editoriali – la Sala Grassi, sede storica di via Rovello, il Teatro Studio Melato collegato alla scuola del Piccolo e il Teatro Strehler inaugurato proprio nel 1998 quando arrivò Escobar – non sono sconosciuti. E il minore smalto o visibilità del teatro che fu di Strehler e poi di Luca Ronconi sono solo il risvolto di superficie. I teatri, fino al Covid, erano pieni, i milanesi ci vanno. In proporzione, si riempivano di più quelli meno paludati e addirittura le sale “off”, perché a Milano, dati alla mano, esiste una fascia di pubblico, anche giovanile, che predilige il teatro di ricerca a quello istituzionale. E il Piccolo, si sa, è istituzione. E il problema di essere una istituzione di valore europeo, ma in un settore comunque di nicchia, è esattamente quello di mantenere una qualità tale da giustificare il nome e il ruolo. Il nome e il ruolo del teatro che fu di Paolo Grassi e Strelher, e poi di Ronconi che al Piccolo ha lavorato a fianco di Escobar dal 1999 alla morte. In qualità di “consulente artistico” del direttore, perché lo strano statuto dei teatri italiani dispone che non esista un “direttore artistico” a fianco del direttore-manager. Ma Ronconi manca al teatro mondiale da cinque anni, a farne le veci Escobar aveva chiamato Stefano Massini, drammaturgo autore della Lehman Trilogy, ultima regia di Ronconi e ultimo gran trionfo dello Strelher. Ma appunto, era il 2015. E dirigere una industria culturale grande come una Pmi tenendone alti gli standard ma senza avere a fianco un Ronconi, è difficile. Così che la presa di posizione delle maestranze è sembrata anche un atto di sfiducia verso Massini.
Ora si dovrà trovare il sostituto di Escobar, e verosimilmente del suo consulente. Si discute sul metodo: una chiamata del cda, un bouquet di candidature. Ogni strumento è buono a patto di evitare, come il Piccolo ha saputo fare in passato, le trappole che affliggono spesso gli Stabili italiani: se il direttore appartiene alla cordata A, il consulente spetterà alla cordata B. Milano, che fondò con il coraggio delle grandi imprese il Piccolo Teatro di Milano e d’Europa due anni dopo la guerra, nel 1947, ha bisogno soprattutto di un colpo d’ala. Scommettere su un progetto, su una via d’uscita dallo spazio di teatro “di città”. O su nome nuovo, diverso da quelli un po’ di establishment teatrale italiano sentiti finora, fosse pure internazionale. La prossima stagione sarà “da dopoguerra”, serve la stessa determinazione di allora.
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