Efraín Ríos Montt (LaPresse)

Chi è Efraín Ríos Montt

Gabriella Saba

Il labirinto del generale Ríos Montt è il Guatemala, uno strano paese che non segue il passo del resto del mondo, nemmeno di quello insopportabilmente lento dell’America Latina

Il labirinto del generale Ríos Montt è il Guatemala, uno strano paese che non segue il passo del resto del mondo, nemmeno di quello insopportabilmente lento dell’America Latina. È un teatrino arcaico in cui si muovono da decenni le stesse figure, o i cloni di quelle in versione riammodernata, e in cui la vita appare congelata, arenata. Fermo nel tempo, il Guatemala incarna magnificamente l’immagine della repubblica delle banane: un misto di colorato folclore, violenza, impunità e miseria. Solo, in una versione insolitamente triste. In quel regno dell’antistoria Efraín Ríos Montt, 77 anni, il dittatore più feroce che abbia avuto il paese, destituito vent’anni fa, continua a sentirsi a suo agio. Così a suo agio da comportarsi ancora come se fosse il presidente. Meglio ancora: il capo assoluto. I guatemaltechi non l’hanno bocciato nello scorso novembre al primo turno delle presidenziali, quelle che poi, a fine dicembre, hanno visto imporsi l’ex sindaco di Guatemala City, Oscar Berger. Ma, intanto, Ríos Montt era riuscito a candidarsi, superando la norma costituzionale che dal 1986 proibisce agli ex capi di Stato golpisti di presentarsi alle presidenziali (e sembrerebbe una norma inutile, non fossimo in Guatemala). Il fatto è che quel generale obsoleto, dal sorriso rasserenante e dai baffi imponenti conta ancora moltissimo. Il suo partito, il Frente republicano de Guatemala, ultraconservatore e populista, è piazzato benissimo al Congresso e nei municipi, ma questo è il meno. Il fatto vero è che quel partito controlla i ranghi più alti delle istituzioni e si avvale di un esercito paramilitare.

  

Ríos Montt è il classico caudillo, con l’aggravante che crede di essere stato investito
di una missione speciale direttamente da Dio. Eppure la sua formazione non fu religiosa, ma militare. Studiò all’Accademia militare del Guatemala e si perfezionò a Fort Gulick, nel Canale di Panama, il centro di istruzione degli ufficiali centroamericani sotto la sovranità degli Stati Uniti. Nel 1973 diventò generale e, forte di quella carica, si presentò alle elezioni del 1974. La coalizione che lo appoggiava, paradossalmente, era di centrosinistra, e lui avrebbe anche vinto, con tutta probabilità, se le elezioni non fossero state truccate. Invece perse e se ne andò a lavorare in Spagna come addetto militare all’ambasciata. Quando tornò, tre anni dopo, si convertì alla religione evangelico-pentecostale della Chiesa del Verbo, emanazione locale della Gospel Outreach con sede a Eureka, in California, e per qualche anno si dedicò a convertire i suoi compatrioti. Impartiva gli insegnamenti biblici nei templi, nei villaggi. Predicava (e predica tuttora) la sottomissione e la rassegnazione, la fede nell’autorità. Ai tempi della dittatura il suo motto era: “Un buon cristiano è quello che ha nella sacca la Bibbia e la mitragliatrice”. È improbabile che si riferisse ai guerriglieri cattolici. Ha convertito molti maya, e li ha portati dalla sua. Una gran parte del 20 per cento dei voti che ha strappato agli elettori arrivano da loro.

  

Altro paradosso, visto che nel corso del suo brevissimo mandato, diciotto mesi dall’82 all’83, li ha massacrati a migliaia nel tentativo di togliere l’acqua ai pesci, l’appoggio alla guerriglia. Per l’esattezza, ne ha fatti ammazzare 12 mila, per un totale di 440 massacri, su un totale di 700 compiuti dai vari governi in 36 anni di guerra civile e di più di 200 mila morti. Durante i comizi che ha tenuto prima delle ultime elezioni, però, li chiamava figli miei. “Figli miei”, diceva allargando le braccia come per accoglierli tutti sul suo petto. Si era sobbarcato, alla sua età, centinaia di chilometri sulle strade sconquassate dell’interno, raggiungendo a dorso di mulo i villaggi più lontani. “Siete tutti miei figli”, tuonava commosso dal palco di fronte alle centinaia di indigeni che i suoi gregari avevano nel frattempo imbonito con regalini e denaro. “Il vostro padre pensa a voi”, aggiungeva. “Il vostro padre pensa a voi, penserà a voi se sarà eletto. Il vostro padre è dalla parte dei poveri, non come quegli altri che sono dalla parte dei ricchi”. Pochi gli hanno ricordato che durante il suo governo teorizzava che “istruire gli indigeni era come nutrire gli avvoltoi che ci caveranno gli occhi”.

 

O meglio, nei villaggi in cui avrebbero potuto ricordarglielo
– villaggi in cui la memoria degli eccidi è ancora viva, così come l’odio per il dittatore – padre Ríos si è guardato bene dal farsi vivo. Nemmeno per riaffermare quello che dice da vent’anni: non ho mai massacrato nessuno, non c’è stata nessuna repressione, c’è stata una guerra e nelle guerre ci si ammazza. Personalità autoritaria e intollerante, preferisce bazzicare gli indigeni più incolti, abituati dall’emarginazione a credere in chiunque sembri interessarsi a loro. Del resto Ríos Montt parla correntemente una delle loro lingue, e i maya si sentono amati, considerati, protetti. E lo votano. Forse è vero che il caudillo li ama, in una sua contorta concezione della vita che prevede che gli indigeni siano il gregge docile da preservare, tenendolo nell’ignoranza. Per ottenere il risultato, ha fatto esattamente come gli altri governi che si sono succeduti in Guatemala negli ultimi quarant’anni, cioè niente. Né strade, né terra, né istruzione (in Guatemala gli analfabeti sono il 35 per cento, la maggior parte degli indigeni non parla spagnolo). Si è limitato a riconoscere le loro lingue, una ventina, una misura a effetto. Benché rappresentino il 65 per cento della popolazione, gli indios non contano.

  

Nel 1996, subito dopo la firma degli accordi di pace tra guerriglia e governo, una norma costituzionale stabilì che gli indigeni dovessero avere gli stessi diritti dei bianchi, ma al referendum che avrebbe dovuto sancire quella norma gli indigeni votarono no. Per ignoranza, o per paura. Ovviamente, nemmeno la guerriglia che si è opposta alle dittature ha dato loro credito. Li ha solo e sempre utilizzati come gregari. A Ríos Montt va bene così. Non gli piace che la società cambi. Dal labirinto su cui regna – la capitale, Guatemala City, metropoli tristissima di due milioni di abitanti moderna e violenta – il paese gli appare variopinto e arcadico come in una favola del realismo magico. E quella visione gli piace. Perché la realtà è che a Guatemala City c’è tutto, per chi possa permetterselo: grattacieli e scuole private, le “colonias” dei ricchi protette dalle guardie armate, i centri commerciali. Fuori dalla capitale ci sono solo strade malmesse che si perdono nella giungla e tra i villaggi, quattro o cinque ospedali in tutto il paese, piccoli e luridi e male attrezzati per operare. Nelle “tienditas”, botteghe antiquate, si vendono olio e riso. Nei mercatini non proprio oleografici ci sono la frutta e la carne.

 

Scuole pochissime e scalcinate: le lezioni si tengono spesso sotto gli alberi
o negli ex pollai. E in quelle scuole i bambini indigeni imparano dai libri che le signore bianche fanno la spesa nei supermercati, e che i bambini bianchi vanno nelle scuole con i muri e i banchi. Per raggiungere i villaggi occorrono giorni di cammino a piedi, o a dorso di mulo. In quei villaggi succedono cose strane. Per esempio, ogni tanto si linciano persone che la popolazione non gradisce, in genere per motivi futili. L’operazione è piuttosto crudele: prima c’è la caccia all’uomo e poi l’esecuzione vera e propria che consiste nel ferire il malcapitato a colpi di machete, cospargerlo di benzina e dargli fuoco. Lo Stato comincia e finisce a Guatemala City ed è, in verità, poca cosa: un pugno di macchiette che si spartiscono la torta, incapaci e corrotti come l’ex presidente Alfonso Portillo, portaborse di Ríos Montt, eletto al suo posto quattro anni fa. O come la figlia dell’ex dittatore che, guarda caso, è vicepresidente del Congresso, o il figlio di lui che ancora non è, ma sarà presto, ministro della Difesa (il fratello di Ríos Montt, però, è un vescovo abbastanza combattivo, che cerca da anni di fare luce sul genocidio degli indios). Dal 1999, il generale si è ritagliato il ruolo di presidente del Congresso.

  

La sua prima misura fu quella di prorogare il suo mandato a quattro anni, abrogando, senza consultare nessuno, la legge che stabiliva che l’incarico dovesse venire riesaminato di anno in anno. Non che sia in malafede. Solo, ha del paese una concezione teocratica in cui, al posto di Dio, c’è lui stesso: il padre della nazione, severo ma giusto. Come dice di sé. Il modo in cui assunse la carica di presidente fu emblematico: era il 23 marzo del 1982 e lui stava spiegando un passo della Bibbia in un tempio, quando un gruppetto di militari entrò e gli chiese di prendere il posto del presidente che avevano appena deposto, il generale Lucas Garcia. Ríos Montt non li fece insistere e per diciotto mesi fu l’arbitro assoluto delle sorti del Guatemala. Chiuse le Camere, dichiarò lo stato di guerra e si lanciò nella crociata contro i “quattro cavalli della moderna Apocalisse”: la fame, la miseria, l’ignoranza e la sovversione. Finì però per concentrarsi solo su quest’ultima e tutto quello che si ricorda del suo governo è l’operazione “terra bruciata”: faceva bruciare, cioè, i villaggi sospettati di dare aiuto ai guerriglieri e uccidere gli abitanti in maniera fantasiosa ed efferata (per esempio: le donne incinte venivano squartate, gli uomini castrati e impalati, e così via). Fu così gratuitamente feroce da diventare imbarazzante. Gli Stati Uniti ne suggerirono la destituzione, la Chiesa cattolica gli dichiarò una specie di guerra occulta. Il generale fu costretto ad andarsene e non se ne fece mai una ragione.

  

Non se la fece mai neanche della “liberticida” decisione della Corte costituzionale di proibire agli ex golpisti di candidarsi presidenti. Quanto ai tentativi, timidi e inascoltati, di farlo incriminare per genocidio, non sembra essersene mai preoccupato, probabilmente a ragione. Per nulla rassegnato alla sconfitta, fondò il Frente republicano de Guatemala, raccattando ex compagni di governo e veterani della guerra, e vinse le seconde elezioni dopo la firma degli accordi di pace – forse premiato anche da un’astensione del 78 per cento – lasciando allibita la comunità internazionale. Al posto di Ríos Montt, che non aveva potuto candidarsi, venne eletto presidente il suo prestanome, Alfonso Portillo, che se n’è andato ora lasciando il ricordo di presidente inetto e corrotto e un debito estero da record. Del resto, a tutto continuava a provvedere Ríos Montt in persona, dalla sua scrivania di capo del Congresso. Veniva approvata una legge che non gli piaceva? E lui la modificava, di suo pugno, prima che venisse pubblicata nella Gazzetta ufficiale. C’era il pericolo che potesse perdere le elezioni? Ecco che, miracolo, sparivano dalla Tipografia nazionale un milione di schede elettorali. Nemmeno la legge che attribuiva alle vittime della repressione un risarcimento è stata attuata. Quei soldi sono stati investiti in spese elettorali e per ricompensare i paramilitari: eroi nazionali, secondo l’ex dittatore che ha anche promesso loro un bel po’ di soldi per l’aiuto dato durante la campagna elettorale. Ma di soldi non ce n’erano per tutti, e quelli si sono così seccati che un gruppo di loro ha aspettato il generale in una certa strada, e se si è salvato è stato solo grazie a una soffiata. Lui ha attribuito la sconfitta dell’ultimo novembre ai media, di proprietà dei grandi imprenditori che fanno capo a Oscar Berger, a capo della coalizione di destra. Ma i suoi patrulleros hanno lasciato perdere Berger e se la sono presa soprattutto con i giornalisti.

  

Alla marcia organizzata per protestare contro la decisione della Corte costituzionale
di approvare finalmente la candidatura di Ríos Montt alle elezioni, sono scesi in piazza anche loro. Incappucciati. Hanno manganellato e ammazzato un po’ di gente, distrutto registratori e attrezzature fotografiche, assassinato il più popolare e coraggioso dei reporter del Guatemala. Davanti ai poliziotti apatici e assenti. E dire che ne avrebbero, i poliziotti, da lamentarsi. Sono messi malissimo: girano sbrindellati come straccioni, in tre su moto scassate per risparmiare benzina. Le caserme hanno i telefoni staccati perché non pagano le bollette da tempo immemorabile, le stazioni di benzina rifiutano di fare crediti che non verranno pagati. Però per le spese militari si è speso negli ultimi anni più che in tempo di guerra. I militari appoggiano Ríos Montt, gli imprenditori e la vecchia oligarchia terriera lo disprezzano. La piccola borghesia bianca, imbevuta di cultura evangelica e di sogni di gloria, crede che sia il solo a poter ristabilire l’ordine nel paese. Per ora girano armati così come quasi tutti coloro che abbiano qualcosa da difendere. Portano la pistola quando escono di casa, quando vanno al supermercato, o accompagnano i figli a scuola. Nella capitale, con il buio, scatta una specie di coprifuoco. Ma nei quartieri sembra di essere in un altro mondo. In Europa, o a Miami. Ci sono bei negozi, ristoranti alla moda in cui si mangia sushi conversando sulle note languide della musica lounge, discoteche laccate. Il Guatemala è dietro le spalle, gente come Ríos Montt sembra lontanissima.


  

Efraín Ríos Montt È nato nel 1926. Ex presidente golpista del Guatemala, ne guida attualmente il Parlamento. Generale, a lungo addetto militare all’estero, nel 1982 prende il potere con un colpo di Stato, inaugurando i 18 mesi più atroci della trentennale guerra civile guatemalteca, conclusasi nel 1996. Le organizzazioni internazionali lo hanno accusato per crimini contro l’umanità, tra cui l’uccisione di 12 mila indios, e 440 massacri. Lo scorso anno ha tentato di ricandidarsi alla presidenza nazionale, ma non ha superato il primo turno elettorale.

  
Gabriella Saba vive a Milano, si occupa di America Latina per varie testate, tra cui Diario, e per la Radio Svizzera.

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