Mel Gibson
Essere figli di Mel Gibson è un'esperienza da cui raramente si porta a casa la pelle. E nel caso fortunato, trascinandosi dietro traumi grossi così. Al cinema, ovviamente. In “Signs”, non bastando una madre morta male e un padre predicatore in crisi, il figlio viene pure rapito dai marziani. In “Ransom”, il frugoletto è nelle grinfie di più banali banditi, e non è nemmeno il peggio che capiti. In “Arma letale”, lui è un vedovo fuori di testa e inconsolabile che si prende a cuore la storia della figlia di un amico: suicidatasi dopo aver sniffato droga.
Dal Foglio del 7 settembre 2003
Gli occhi sbarrati dal terrore, non si sa se per quello che vedono, il sangue che scorre e le schioppettate che sibilano, o per paura di non essere all'altezza del compito assegnato dal padre, quel guerriero scatenato che li sta ammazzando tutti, su e giù per la scarpata del bosco. Ansimano con la morte nel cuore, la morte che passa a due dita dalla loro pelle di pesca. Ma il padre ha chiamato, e al Patriota si può solo ubbidire. C'è da salvare il fratellone, quello scimunito che è andato in guerra contro le giubbe rosse e l'hanno catturato. Nobile causa, grandi valori. Ma la crudeltà mentale che riverbera da tutta la scena è di magnitudo decisamente superiore. Ci vuole qualcosa di più del senso dello spettacolo, di un senso hollywoodiano del pathos, per scovare due paia d'occhi così, per inchiodarli in una scena così, per saggiarli nel crogiuolo dello spavento, dell'educazione alla vita e alla morte.
Essere figli di Mel Gibson è un'esperienza da cui raramente si porta a casa la pelle. E nel caso fortunato, trascinandosi dietro traumi grossi così. Al cinema, ovviamente. In “Signs”, non bastando una madre morta male e un padre predicatore in crisi, il figlio viene pure rapito dai marziani. In “Ransom”, il frugoletto è nelle grinfie di più banali banditi, e non è nemmeno il peggio che capiti. In “Arma letale”, lui è un vedovo fuori di testa e inconsolabile che si prende a cuore la storia della figlia di un amico: suicidatasi dopo aver sniffato droga. Nel “Fiume dell'ira”, essere i ragazzi del contadino più sfigato del mondo non è una passeggiata. E tutta la storia di William Wallace parte dal padre morto ammazzato quando Braveheart era ancora un moccioso. Persino in “Quello che le donne vogliono”, commedia rosa e ridanciana, c'è una figlia che non ne può più di un padre come lui. E quando proprio la trama non consente, vanno bene anche le figliolanze trasversali, come in “Ipotesi di complotto”, dove l'amica di Mel dà la caccia agli assassini del caro papà.
Sì, essere figli di Mel Gibson è proprio un brutto affare. Al cinema. Perché nonostante gli occhi di cobalto e il culo di marmo che non smette di far sognare le donne, l'icona che Mel Columcille Gerard Gibson lascia sullo schermo è quella del Padre. Un padre affidabile e temibile, affettuosissimo, benissimo intenzionato. E assolutamente allarmante. Uno di quelli che pur di raddrizzarti ti farebbero secco. Lieto fine, al cinema. Nella vita non sappiamo. O meglio sappiamo che i suoi sette figli li ha tirati su tutti bene, belli (e vabbé) e con la schiena dritta. Felici, per quel che si dice in giro. Una addirittura, la maggiore Hannah, si vuole fare suora. E certo non come una sciagurata Virginia da Monza. Ma al cinema.
Se questo fosse un saggio di psicologia applicata, si direbbe che al cinema Mel Gibson è un padre inquietante perché nella vita è stato figlio di un padre tremendo. Sesto figlio degli undici di un padre, va da sé, benissimo intenzionato. Un padre che gode pure di vita mediatica propria, e anzi ogni tanto ruba la scena e getta ombre sull'irreprensibile carriera di quel sesto, bellissimo figlio. Un padre pronto a salvare la famiglia. Lavorava alla Hudson-Harlem Railroad, e prima se li portò tutti in campagna, via dalla pazza folla, poi approfittò di una vincita alla lotteria per trasferirli tutti in Australia. Per non rischiare di vederli finire in Vietnam. Era il 1968. E gliel'hanno rinfacciata, eccome gliel'hanno rinfacciata, all'icona del “Patriota” e di “Braveheart”.
Ma la psicologia applicata è una cosa, i fatti sono un'altra. E tra i fatti del cinema Mel ha anche un padre per transfert, un allenatore: che ovviamente lo manda a morire ammazzato. Aveva 25 anni ed era il signor nessuno, quando Peter Weir lo spedì a sfracellarsi contro la mitraglia degli “Anni spezzati” e a decollare verso la gloria. En passant, anche Weir sarebbe un genitore da prendere con le molle: uno che i figli gli piace vederli morti a classi intere. Sempre al cinema, s'intende. Comunque sia, papà li tirò su con la schiena dritta, e Mel non se l'è mai sentita di voltargli le spalle. Anche adesso che il vecchio Hutton Gibson, il fondatore dell'Alleanza per la tradizione cattolica, gli combina qualche piccolo guaio. Tipo tirargli addosso accuse di antisemitismo e negazionismo per certe dichiarazioni fatte a quattro mani con la nuova moglie, la giunonica Joye che timidamente lo chiama il Maestro: “L'Olocausto è una bufala inventata per coprire gli accordi tra Hitler e i finanzieri ebrei”. Non è facile essere una star, quando tuo padre se ne esce sul New York Times a dire che gli aerei delle Twin Towers erano telecomandati. Ma Mel è un bravo figlio, quando gli tirano fuori queste storie s'incazza come Mad Max e querela, caspita se querela. Ha querelato anche il New York Times.
Il problema è che babbo Hutton è un bel fondamentalista. Preconciliarista, anzi tecnicamente è più vicino alle posizioni dei sedevacantisti, quei burloni che sostengono illegittimi i successori di Pietro a far data dal Concilio Vaticano II (“un complotto massonico sostenuto dagli ebrei”), uno che sbraita contro “il garrulo Karol baciatore del Corano” e le cui tesi girano in Internet, riprese o confutate da siti che si chiamano Exurge Michael e giù di lì.
Lo scandalo, secondo la Furibonda, è che gli ebrei non sopporterebbero che uno come Mel “sappia combattere con le loro stesse armi” (vale a dire il cinema, Hebewood). E che tramite la sua Icon Production sia libero di “non permettere agli ebrei di riscrivere la sua sceneggiatura”. Siccome è un uomo di fede, Mel va avanti diritto e sta organizzando in mezza America proiezioni per la critica. Qualcuno che gli dà retta inizia a trovarlo. I vescovi americani gli hanno chiesto scusa per qualche uscita imprudente e la settimana scorsa il settimanale inglese The Spectator ha dedicato la copertina a una sua vigorosa difesa scritta da Deal W. Hudson, uno dei critici americani che il film l'ha visto davvero. “Non è un problema di cristiani contro ebrei. Guardando alla Crocifissione di Cristo, io contemplo soprattutto la mia colpevolezza per essa”, ha detto lui qualche mese fa. Si può prenderla per buona. Anche perché, più che di una parte da cavaliere crociato, Gibson è in cerca di una sua definitiva consacrazione d'artista.
“Passion” è recitato in latino e aramaico, è girato fra i sassi di Matera come il Vangelo di Pasolini, è iperrealista e medievale come una sacra rappresentazione, è costoso come un flop sacrificale. Insomma è un catalogo completo degli aneliti autoriali: “A Hollywood credono che io sia pazzo. E forse lo sono”. Ma più ancora, “Passion” ha l'aria di essere la summa teologica di una visione della fede e di tutta una vita: “Il Figlio imparò l'obbedienza da ciò che sofferse”. Se dovessimo scommettere un dollaro, è la frase della Bibbia (Lettera agli Ebrei, 5, 8) che più sta a cuore a Mel. Quella da farsi scolpire sulla tomba.
In attesa della resurrezione, i suoi sette figli carnali crescono in pace, come quelli di James Stewart nella “Valle del Signore”. In attesa di nuove polemiche, la sua casa di produzione, la Icon Production, non fa nulla per smentire la fama di anarcoide della destra religiosa, di americano riluttante al sistema, del suo proprietario. La Icon sembrerebbe infatti interessata al finanziamento di “Fahrenheit 9/11”, il documentario con cui Michael Moore, l'uomo di Columbine, ha intenzione di svelare “i legami tra i Bush e bin Laden”. In attesa di non si sa cosa, le sue fan continuano a mangiarselo con gli occhi, a tastare coi polpastrelli dei sogni il suo fantastico sedere, a riempire la Rete di tribute club. Tributi a lui, il più frustrante degli idoli delle donne, quello che dice “per tutte sono un dio, ma mia moglie mi tratta come uno sguattero”. Lui, che aspettando i cinquant'anni la mattina si guarda allo specchio sperando di veder spuntare la saggezza delle prime rughe che invece non spuntano, di veder cascare un po' i pettorali che invece resistono come le porte di Orione. Lui che vorrebbe invecchiare in pace, che vorrebbe essere solo un bravo, premuroso, papà.
In breve
È nato nel 1956 a Peekskill, New York, ed è cresciuto in Australia, dove ha studiato Arte drammatica e ha debuttato in teatro. Il suo primo ruolo di rilievo nel cinema è del 1979, in “Mad Max”. Consacrato da due film di Peter Weir (“Gallipoli”, del 1981 e “Un anno vissuto pericolosamente”, del 1982), sbarca a Hollywood e presto ne diviene una delle star più acclamate e longeve. Debutta nella regia nel 1993 con “L'uomo senza volto”. Con “Braveheart” (1995) vince due Oscar: per il miglior regista e per il miglior film.
Mauizio Crippa è nato a Milano nel 1961. Al Foglio ha curato gli Esteri, ora si occupa dei Ritratti domenicali.
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