Arbasino Alberto
Consigli per Kulturkritiker che aspirino all'eccellenza. Nascere in una piccola città, magari Voghera, per poterne lanciare qualche decennio dopo la Casalinga. Frequentare la stessa scuola dello stilista Valentino, quasi coetaneo, e perciò durante l'ora di ricreazione mettere le basi di un'amicizia che fra tartine e sfilate continua ancora oggi.
Consigli per Kulturkritiker che aspirino all'eccellenza. Nascere in una piccola città, magari Voghera, per poterne lanciare qualche decennio dopo la Casalinga. Frequentare la stessa scuola dello stilista Valentino, quasi coetaneo, e perciò durante l'ora di ricreazione mettere le basi di un'amicizia che fra tartine e sfilate continua ancora oggi. Fare parte di una generazione che non dovendo perdere tempo né con la guerra né con tv e computer “per anni e anni ha letto un libro al giorno, anche due”, onde suscitare lo stupore dei giovani e l'invidia dei vecchi, compreso Andrea Zanzotto che la confessa. Avere nonne lodigiane e volitive che già a fine Ottocento producevano latte e formaggio facendo a meno degli uomini, da cui attingere per scrivere “La bella di Lodi”, libro, sceneggiatura e film girato da Missiroli nel fatale, aggettivo che spiegheremo poi, 1963.
Crescere in una famiglia benestante di farmacisti e avvocati senza grilli letterari per la testa e pertanto venire indirizzati verso solidi studi giuridici (“Il mio maestro è Gadda, forse perché anche lui non ha fatto Lettere”). Andare alla Scala negli anni in cui una Callas già leggendaria cantava quasi tutte le sere. Laurearsi alla Statale di Milano e perfezionarsi ad Harvard, alla Sorbona, all'accademia di Diritto internazionale dell'Aia, cosicché poi “nelle capitali gli ambasciatori erano quasi tutti miei vecchi compagni di scuola”. Esordire sul Mondo, settimanale prestigioso e assetato di corrispondenze specie se firmate da un discepolo di Raymond Aron e Kissinger. Prevedendo una carriera di giurista internazionale scrivere per hobby (pronunciare “h-obby” con acca aspiratissima), libero da ambizioni volgari, vanità idiote, bisogni squallidi, ma per “seguir virtute e canoscenza”. Calare a Roma per ragioni fredde (“È giusto stare nella capitale del paese di cui si ha la cittadinanza”) ma poi viverla in modo caldo come succede spesso ai nordici (Goethe: “A Roma ho trovato me stesso. Non sono mai più stato così felice”, Arbasino: “A Roma sono rinato”).
Azzeccare anche la data, 1957, per godersi la medaglia del boom economico senza il rovescio della mutazione genetica pasoliniana, per cui con lo stipendio da assistente universitario “abitavo in via Frattina angolo via Mario dei Fiori, all'ultimo piano, mangiavo in trattoria due volte al giorno, ogni sera andavo a teatro o al cinema e poi prendevo due o tre whisky nei caffè alla moda di via Veneto, cose che oggi non sarebbero più concepibili”. Alle sette fare due passi fino alla redazione del Mondo in via della Colonna Antonina e lì incontrare Chiaromonte, Comisso, De Feo, Flaiano, Moravia, Pannunzio, Patti, Soldati per una conversazione- aperitivo di altissimo livello. Posizionarsi come tardo illuminista lombardo, filone minoritario, quindi chic, e rispettato, quindi comodo: se ti piacciono Verri e Beccaria puoi scrivere su molti e molto solvibili giornali mentre se i tuoi campioni sono, poniamo, Giuliotti e Drieu La Rochelle, le possibilità si riducono parecchio. Coltivare le memorie letterarie invitando a pranzo vecchi scrittori sopraffini però fuori dai giri e dai salotti, tesaurizzando frasi e battute buone per le successive inevitabili riscoperte: “Organizzavo tutto io, anche la compagnia di qualche bella signora che però li avesse letti. Gadda e Palazzeschi erano contentissimi”. Intrecciare corrispondenze con i migliori autori e poi consegnarle al Fondo manoscritti dell'Università di Pavia. Citare Mario Praz senza toccarsi le parti intime e andare fino a Firenze per trovare Roberto Longhi.
Trovarsi a Washington quando arriva Kruscev per una visita che entrerà nei libri di storia, accodarsi a giornalisti italiani amici, entrare alla Casa Bianca senza invito e senza neanche mostrare i documenti, sorseggiare champagne insieme ai padroni del mondo. Esplorare a Parigi i salotti di vecchi bizzarri, da Céline a Cocteau, raccogliendone le ultime conversazioni in un libro (“Parigi o cara”) grazie al quale, pochi anni dopo (morti i bizzarri), si verrà infallibilmente nominati Chevalier des Arts et des Lettres. Comprare una Fiat 1500 Pininfarina ottima per rimorchiare ma anche per presentarsi al Festival dei Due Mondi di Spoleto con i capelli scompigliati dal vento (“Erano anni da spider”, detto in “anni da Smart”). Vivere la dolce vita, nientemeno di questo si trattava, allo zenit psicofisico, “giovane, abbiente, avvenente” e per di più senza legami, non come Fellini che c'aveva il problema della Masina sempre alle calcagna. Avere l'età di Cristo nel 1963, l'anno in cui in Italia da “Otto e mezzo” in giù si produssero soltanto capolavori (perfino alla Wertmüller riuscì di fare un film perfetto), l'anno in cui la pelle di Stefania Sandrelli aveva sapore di sale, sapore di mare. Cogliere l'attimo (scavalcando Bassani, che non ne voleva sapere, e appellandosi direttamente all'amico Feltrinelli) per fare uscire il libro della vita, “Fratelli d'Italia”, romanzo di avventure intellettuali e omoerotiche ma anche saggio guida enciclopedia e inoltre voyage conversazione teatro perché il genere conta solo per i babbei e Arbasino per loro non scrive, opera totale sempre ripresa in mano e sempre accresciuta nel corso degli anni fino alle 1.371 pagine dell'ultima edizione.
Scrivere ricco, lussureggiante e lussuoso, dare tutto per scontato, dire “Giorgio e Romolo” intendendo De Lullo e Valli, e chi non sa si arrangi e non assista a questo spettacolo mnemotecnico dominato dall'horror vacui. Diventare di conseguenza scrittore per scrittori, pochi premi e mai una classifica: per vivere bene non bisogna vendere molto, bisogna vendere per molto tempo. Omettere sadicamente l'indice dei nomi così da costringere lo sventurato alla ricerca di una citazione a risfogliare pagina per pagina. Lasciare l'università “alla vigilia di diventar baroncino, perché mi sembrava improbabile svolgervi un lavoro serio, di qualità”. Rifiutare però il lavoro redazionale: “Mai avere orari, impegni, cartellini da timbrare, straordinari, carriere, gerarchie”. Ritagliarsi un ruolo di free-lance (pronunciare “fri-lans”) di gran lusso, anche perché è l'unico modo per scrivere davvero (dentro i giornali si perde gran tempo in riunioni e complotti). Acconciarsi a chiosare un lungo declino morale e civile dall'alto di una ben cesellata torre d'avorio. Ad esempio frequentare Moravia ma non firmare mai un manifesto (“Erano anche scritti male”). Vedere solo amici geniali, gli unici che all'occorrenza possano regalarti un titolo: “Super-Eliogabalo” è di Carmelo Bene.
Farsi fotografare da Elisabetta Catalano, al ristorante Colomba di Venezia, non come gli altri scrittori con gatti, sigarette, Olivetti bensì con un paio di folti baffoni, di grande impatto. Diventare scrittore politico negli anni del rifiuto della politica, pubblicando “Un paese senza”, manuale di educazione civica che in mancanza di educandi viene usato come campionario di mostruosità italiane, a disposizione di sempre nuove generazioni di pettegoli. Diventare anche politico in senso stretto, cioè deputato, di un partito piccolo come un club esclusivo (il Repubblicano), animato dal medesimo moralismo elegante. Non confondere illuminismo (razionale) con progressismo (messianico) ma non accettare la definizione di reazionario: “È un termine anni Cinquanta”. Uscire piano piano dal contemporaneo almeno per quanto riguarda le arti (“Sono già pieno di nomi fin qui. C'è un accumulo stagionale a cui non è possibile star dietro: a ogni rassegna ci sono 46 nuovi artisti, i nuovi rapper americani sono minimo 37”) rifugiandosi negli amati musicisti e pittori dell'Otto-Novecento, il che significa girare il mondo per mostre e concerti (e grandi alberghi e bei ristoranti) riuscendo a distillare sempre nuova cronaca da opere che a chiunque sembravano storia rinsecchita, archeologia.
Nutrire una candida fiducia verso la Kultur e perfino verso la Kritik, come se in qualche piega del paese potesse nascondersi (ma dove? su Repubblica?) un gruppo di lettori ricettivi. Pensare che le lettere ai giornali servano a qualcosa, “interventi di impegno civile” le chiama, perciò mischiarsi con schiere di vanesi e di grafomani riuscendo a non confondersi grazie a reiterati miracoli dello stile. Trovare un biografo rispettoso che non si soffermi troppo sui pericolosi dettagli dell'arredamento: collezione di obelischi, specchi sui soffitti, cornici zebrate e per finire un “Cazzo” (testuale) di Consagra ovvero un paracarro falloide che il noto scultore riprodusse in marmo e a misura quasi umana, soprammobile da mostrare ai visitatori per vedere l'effetto che fa. Fine dei consigli per Kulturkritiker. Se non è possibile seguirli tutti (magari perché non si è nati in quel posto lì e in quell'anno là) seguirne almeno uno: andare ai Maestri. Costa anche meno che comprare una spider. La ragione deve far pensare ad Arbasino che i buoni incontri non bastino e “che un sogno così non ritorni mai più”. (Che la spider sia ancora indispensabile? Ma dove si parcheggia? E non è meglio girare in taxi così la fatica la fanno gli altri?). Questa almeno è l'impressione, visto che dedica i “Fratelli”, affidandosi per una volta all'irrazionale pre-illuministica pratica dell'auspicio, “Per C.L. con mille auguri!”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano