Pietro Citati
L'uomo è schivo, forse timido, sicuramente discreto. Vive in disparte, al riparo dal clamore, anche quando si trova a occupare giocoforza il proscenio dell'attualità, per via dei libri, che sforna al ritmo di uno l'anno, e di certi suoi editoriali sul mondo incongruo della politica italiana, sulla perfezione della lingua, o sull'incanto dell'infanzia felice, che gettano inattesi bagliori sulle altrimenti plumbee colonne di Repubblica.
Dal Foglio del 12 novembre 1998
L'uomo è schivo, forse timido, sicuramente discreto. Vive in disparte, al riparo dal clamore, anche quando si trova a occupare giocoforza il proscenio dell'attualità, per via dei libri, che sforna al ritmo di uno l'anno, e di certi suoi editoriali sul mondo incongruo della politica italiana, sulla perfezione della lingua, o sull'incanto dell'infanzia felice, che gettano inattesi bagliori sulle altrimenti plumbee colonne di Repubblica. Pietro Citati coltiva l'ozio come forma di eudemonia. Ai giovani amici raccomanda di non lavorare mai più di tre-quattro ore al giorno per lasciare il corpo libero di camminare e la mente di pensare. Per niente mondano, si lascia coinvolgere con ostentato fastidio dai vacui riti di società.
Nella sua casa al quartiere Pinciano, fra dipinti francesi del Settecento e mobili antichi, riceve sobriamente piccoli comitati di commensali scelti, sui quali riversa il suo spirito paradossale. Tipo bizzarro, può essere simpatico e collerico, ma pare prediliga le forme perentorie del giudizio senza possibili via di mezzo tra il “sublime” e l'“abominevole”. Spirito libero dal sublime distacco, in tempi di persecuzione giudiziaria, confessa apertamente di aver nutrito una passione per la mediocrità democristiana. I postcomunisti vanno al governo? Citati ricorda la “mescolanza tra delitto e pedanteria professorale che rendeva così odiose le figure di Togliatti e dei suoi scolari”.
Con sguardo mite e lievemente allucinato, osserva dimenarsi intorno a sé il rampatista incallito, i vecchi amici un po' bolliti, il famoso direttore di giornale in preda ad ansia da certificazione del genio, il musicologo snob acuminato osservatore del costume, l'editore smagato che ha conquistato il mercato americano. C'è chi lo ama da morire, pronto a sfidare due volte al dì l'agglutinante traffico romano pur di poterlo accompagnare nella passeggiata fra i viali alberati di Villa Borghese. E chi lo odia senza riserve, pronto a lanciare strali sulla sua prosa densa, ricca e frondosa come un olmo millenario, e ormai leggendaria visto che sono anni che si parla di stile citatiano in contrapposizione a quello tacitiano. Fra i giovani c'è chi coltiva con ostentata voluttà una forma di vicinanza mimetica, mimandone l'aggettivazione abbondante, la duttile soavità della sintassi e persino la scelta dei temi mistico-musicali, e c'è chi invece soffre nei suoi confronti di un insanabile complesso di soggezione.
Per un Emanuele Trevi che forse ambirebbe in cuor suo a passare per un emulo, tanto che persino quando parla sembra leccarsi in bocca la vocale ridondante, c'è un Roberto D'Agostino che si sente sopraffatto dal tono di voce ieratico del grande critico, severo e assorto come quello di “uno che se ne sta a leggere le lapidi di un cimitero”. Eppure entrambi, emuli o insofferenti, laudatori o dettratori che siano, ammetteranno senza difficoltà di essere sempre devoti lettori di tutti i suoi lunghi articoli che appaiono sulla Repubblica. In vena di confidenze confesseranno che dopo aver sognato su quei lenzuoli di carta le avvenure di Joseph Conrad e i dolori di Marina Cvetaeva, le delusioni di Isabel Archer e il malumore di Virginia Woolf, se li sono addirittura ritagliati per conservarli come preziose reliquie e attingere in silenzio ai tesori di senso che riescono a dischiudere.
Gli indecifrabili foglietti scritti a mano
La bellezza della prosa di Pietro Citati nasce dal modo in cui prende forma. Citati scrive come gli antichi romani, seguendo il suo stesso respiro. Prima a mano, su foglietti indecifrabili, con cui riempie valigie intere per farli decantare. Poi dettando ciò che ha scritto a una stenografa, che lavora con macchina a pedale, perché nessun altro riuscirebbe a copiarli. Con metafora paolina dice di “vivere appeso ai libri degli altri, come durante il giorno il pipistrello alla trave”. E che sia autore nutrito di immense letture, e animato da onnivora curiosità verso tutte le tradizioni che assapora da anni passando senza esclusione dall'antico al moderno, dall'oriente all'occcidente, dai Maya ai Ming, ma sempre con la stessa voracità eclettica e generosa, lo dimostra anche per l'occhio più distratto la sua stessa bibliografia.
Nell'elenco delle sue opere, il ritratto di Alessandro Magno insegue la poesia persiana del XIII secolo, la biografia di Katherine Mansfield rincorre quella di Lev Tolstoj, l'inquietudine di Kafka cede il passo alla dolcezza estenuata di Proust, e sopra tutti si staglia l'ombra del genio classico di Goethe, maestro di vita e di saggezza, modello insuperato di armonia: “Come Euforione - scrive Citati - Goethe si lasciava travolgere dalla propria passione per la leggerezza. Qualsiasi compito accettasse, sembrava non avvertirne il peso; e in mezzo agli affari di governo, occupandosi di tasse o di strade, conservava la sua grazia di incantatore”. Su questo sublime teatro brilla la luce dei grandi miti nella storia del mondo: dai tori androcefali della Scizia al Papageno di Schikaneder nel Flauto magico di Mozart, passando per gli uccelli sassanidi in viaggio verso il Simurgh, che vive oltre la luce e la tenebra ed è Dio; dalla vuota beatitudine del Tao nel libro del Chuant-tzu al dio gnostico, oscuro e limitato dell'ebreo Izchak Luria, cabalista del XVI secolo; dal racconto della Genesi secondo il sunnita Tabari al volto femminile del divino, la Schechinà, nelle favole chassidiche… E' la traccia visibile di un'indefessa attività di studioso, che però vive la sua dimensione più nobile nell'anonimato.
Oltre a essere un rinomato biografo e un critico senza eguali, Pietro Citati infatti è un antichista collaudato. Filologo classico, dirige la raccolta di classici latini e greci della Fondazione Lorenzo Valla, pubblicata da Mondadori col contributo del Crediop e da lui stesso fondata insieme con Santo Mazzarino e Paolo Milano. E segue personalmente con la meticolosità di un cenobita ogni edizione critica, affidata a specialisti italiani e internazionali, che appaia con quel marchio prestigioso in grado di reggere il confronto con l'Oxford University Press, o con i classici della Teubner e delle Belles Lettres. Dal Commento a Giovanni di Scoto Eriugena alla Cristologia di Origene, dalle Vite dei Santi di San Gerolamo, alla Cronografia bizantina di Michele Psello, non c'è opera dell'antichità che non passi al vaglio di questo scriba severo, che conosce il greco antico, e ha tradotto agli esordi la Vita di Antonio di Sant'Antanasio nella stessa collana. Ed è attraverso questo anonimo lavoro sui testi antichi, che Citati alimenta la sua curiosità e nutre i suoi saggi.
La copia autografa del “Pasticciaccio” Normalista di formazione, dell'ambiente accademico più austero d'Italia ha mantenuto intatte le virtù, ripudiandone i vizi. Italianista, allievo di Gianfranco Contini, studioso delle varianti, amico e ammiratore di Carlo Emilio Gadda, tanto che ancora oggi si mormora che un famoso e introvabile autografo del “Pasticciaccio” sia in suo possesso, legatissimo a Italo Calvino che di lui diede una definizione felice (“Il bibliotecario visionario che esplora continenti sterminati nei margini di pagine già scritte”), ha sempre mostrato disinteressato disprezzo per lo specialismo fine a se stesso e il settarismo accademico. In omaggio alla scienza, all'acribia filologica, alla competenza e alla praticità, ha rinnegato la logica universitaria fatta di camarille, fazioni, scuole in lotta e perpetue rivalse.
Cincinnato della cultura, ha rifiutato più di una cattedra, preferendo una carriera di libero scrittore. Nell'editoria, a fianco di Livio Garzanti, che ne parlava come di un ragazzo prodigio. E come giornalista culturale, prima al Giorno, poi, dal 1972, al Corriere della Sera e infine, dal 1988, alla Repubblica di Eugenio Scalfari. Ma soprattutto come autore di saggi accuratissimi, venduti in tutto il mondo, e oggetto di contrattazioni miliardarie, come l'ultimo su Proust, affidato a un rinomato agente americano. Con la stessa sublime indifferenza verso le meschinità della vita e le consorterie di stampo mafioso, ha sempre rifiutato di entrare nelle giurie dei premi letterari, e ha sempre tenuto distinta l'amicizia personale dal valore letterario di un autore, rilasciando giudizi esemplari su Giuseppe Conte, a dir suo grande e stimatissimo poeta, del quale però non bisogna leggere l'opera in prosa, sul giovane Valerio Magrelli, elogiato per la nota pentecostale di “Ora serrata retinae”, ma redarguito per i versi più recenti, e sull'ermetico Daniele Del Giudice di “Atlante occidentale”, romanzo dove “l'idea letteraria ha più importanza della realizzazione, l'intelligenza è più ammirevole della forma”.
L'insofferenza per l'introspezione in un mondo di vocianti, esibizionisti, critici improvvisati, sciatti recensori, redattori sguaiati e caposervizi delle pagine culturali che si credono Edmund Wilson o Robert Curtius, e con boria melliflua ambiscono a dettare il gusto e addirittura guidare la coscienza dei lettori, non può lasciare indifferenti la misura sobria e ponderata, dotta e cristallina, discreta e sottile, che Pietro Citati da sempre ha scelto di imprimere ai suoi scritti. Né si può evitare l'elogio di uno scrittore che nel suo ultimo libro (“L'Armonia del mondo”, Rizzoli) ci ricorda, con la mestizia di un maestro zen nutrito di Pascal e Sant'Agostino, quanto sia vana la ricerca della felicità nelle cosmogonie politiche, e quanto conti invece l'armonia dei dettagli, delle piccole cose, la vita presa nel suo corso naturale. E mostra in tutto questo il debito contratto con la tradizione italiana, fondata sul realismo e l'assenza di introspezione, e una forma di consapevolezza superiore, perché sicura e felice di sé: “Tutta la nostra civiltà - ricorda Citati in una delle sue pagine più belle - è fondata sul rifiuto dell'anima… I viaggiatori di ogni secolo che scendevano le Alpi col cuore palpitante, e persino le folle di viaggiatori che riempiono ogni giorno i nostri musei, amano la nettezza, la lucidità, la sobrietà: la tensione delle linee, la tragicità nuda, la grazia senza compiacenza, la naturalezza sovrana dei gesti, tutto ciò che distingue un quadro o un libro italiano. Senza questo grandioso rifiuto dell'anima, forse lo splendido edificio della forma italiana non sarebbe mai esistito”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano