Hossein Moussavi, il rivale di Ahmadinejad

Tatiana Boutourline

E' stato presentato come l'anti Ahmadinejad e mai investitura è parsa meno persuasiva. Mir Hossein Moussavi è un candidato che non appassiona, un “riformista” vecchia – anzi vecchissima – maniera di quelli statalisti, tradizionalisti, terzomondisti, di quelli senza grilli per la testa, mai un'iniziativa azzardata, un accento o un'esagerazione.

    E' stato presentato come l'anti Ahmadinejad e mai investitura è parsa meno persuasiva. Mir Hossein Moussavi è un candidato che non appassiona, un “riformista” vecchia – anzi vecchissima – maniera di quelli statalisti, tradizionalisti, terzomondisti, di quelli senza grilli per la testa, mai un'iniziativa azzardata, un accento o un'esagerazione. Di quelli nati per dire che il pluralismo in Iran esiste perché ci sono i “riformisti” e peccato che non abbiano mai saputo o voluto riformare nulla.
    Con l'ayatollah Ali Khamenei – che dalle sue ultime dichiarazioni pare propendere per una conferma dell'attuale presidente Ahmadinejad, che ancora ieri si faceva elettoralmente bello dell'ennesimo missile testato con successo – Moussavi vanta una lunga conoscenza, ma i rapporti, soprattutto negli anni Ottanta, sono stati tutt'altro che cordiali e, alle precedenti presidenziali, quando venne avanzato il suo nome, fu proprio il rahbar a bloccargli la strada. Oggi rappresenta l'opzione dialogante del regime soltanto perché il suo profilo sbiadito è un perfetto specchietto per le allodole occidentali. Non parte favorito, ma nelle elezioni iraniane non si deve mai escludere niente. Il problema è che Moussavi ha il carisma di un sasso e, anche se s'industria a criticare Ahmadinejad a ogni dichiarazione fuori posto, arriva sempre qualcuno a rubargli la scena: l'ambizioso Mehdi Karrubi o il tenace Mohsen Rezai, candidati al voto del 12 giugno.

    Il giornale fondato in fretta e furia
    Nessuno quanto Moussavi ha bisogno di una strategia. Ha fondato in fretta e furia un giornale che costa due lire (soltanto 25 rial contro i 500 circa della stampa governativa) e che faticosamente cerca di distribuire. Ha convinto alcuni esponenti dello staff di Mahmoud Khatami ad appoggiarlo (ma ha fallito con molti altri che hanno scelto il più eclettico Karrubi). Parla di rilanciare l' economia ma resta vago. Interviene sui diritti umani però sempre con il freno a mano tirato perché altrimenti i conservatori oltranzisti si inquietano e lui non vuole rischiare (e infatti nei casi recenti di impiccagioni e lapidazioni così come nell'affaire Saberi si fa oscurare dal solito Karrubi).

    Finché, in questa mortale mediocrità, a salvare la sua corsa elettorale è intervenuta un'intuizione che risponde al nome di Zahra Rahnavard. Rahnavard è la moglie di Moussavi e da ultimo si è conquistata articoli sulla stampa iraniana ma anche sul Guardian e sul Washington Times. Ai corrispondenti abituati a seguire le campagne elettorali iraniane è apparso inconsueto vedere Rahnavard sempre al fianco del marito nei comizi elettorali. Se si aggiunge che nel frattempo Moussavi ha dissertato sulla questione femminile e che la moglie è una donna nota che ha diretto un'università femminile (al Zahra) e lavorato per Khatami si giunge in un batter d'occhio all'ovvia conclusione. Se Moussavi ha un atout questo è Zahra Rahnavard. E' lei la sua consigliera, la musa ispiratrice, la ghost-writer.

    Rahnavard è una donna con un'alta opinione di sé, e questo traspare. Messa accanto al marito lui scompare. Non è il massimo per un candidato presidenziale, se non fosse che, nella mancanza di un programma che possa definirsi tale, Rahnavard può attirare il voto femminile e procurarsi altra buona stampa occidentale. Lei, compiaciuta first lady in fieri, sguazza nell'attenzione. E' sempre stato così. Il giornalista Mohammed Atrianfar ricorda che quando fu vagliato il curriculum di Moussavi come possibile primo ministro molti si stupirono: "Moussavi chi? Ah, il marito di Zahra Rahnavard”.

    Negli anni ruggenti della passione khomeinista Rahnavard non è passata inosservata. Ha cavalcato femminismo e islamismo riconciliandoli in una sintesi ambigua e contraddittoria che l'ha allontanata dal movimento e avvicinata al potere. Con la benedizione dell'establishment è stata insignita dello status di “intellettuale” e con questo passaporto ha scritto innumerevoli saggi e 15 libri su islam e tematiche femminili. Si è anche scoperta scultrice e nell'ultimo decennio la definizione con cui preferisce descriversi è quella di “artista”. Laureata in scienze politiche ha allungato le fila dei consiglieri di Khatami. Anni fa se le chiedevi di terrorismo ti rispondeva che terroristi sono gli imperialisti americani che attentano alla libertà altrui, schiavizzano i loro popoli e le loro donne. Se le domandavi quali fossero i suoi obiettivi politici ti spiegava che può esserci un solo obiettivo: combattere gli infedeli “come un martire pronto a versare fino all'ultima goccia di sangue” e che c'è un'unica ambizione per cui valga la pena di avere vissuto: vedere il giorno in cui i musulmani di tutto il mondo si alzeranno e il globo si trasformerà “in un giardino islamico di fede eguaglianza e giustizia”.

    Con gli anni i suoi toni si sono ammorbiditi. Non ha rinnegato il passato, ma in tema di libertà i suoi orizzonti si sono ampliati.  Ha difeso Hashem Aghajari, lo storico iraniano accusato di apostasia nel 2002 ed è intervenuta sull'autodeterminazione femminile in tema di abbigliamento. Lei che un tempo osannava il chador nero integrale come antidoto ai guasti del neocolonialismo occidentale oggi dice “le donne devono poter indossare i colori”. Se c'è qualcuno per cui Rahnavard ha combattuto è stato per le sue studentesse: da rettore si è spesa contro i tradizionalisti che osteggiavano l'apertura della ricerca scientifica alle donne. Convinta delle proprie ragioni e di aver fatto abbastanza per dimostrare la sua adesione agli ideali rivoluzionari Rahnavard si è concessa qualche licenza come invitare all'università Shirin Ebadi che non è una pericolosa sovversiva ma un'altra che si è fatta molto notare e non solo per il Nobel.
    Tra i falchi c'è chi non ha dimenticato. Nell'ondata di epurazioni che hanno caratterizzato l'avvio dell'Amministrazione Ahmadinejad, Rahnavard è stata una delle prime teste a cadere. Oggi al Zahra non è più il suo regno e correre contro chi l'ha licenziata è diventata una faccenda personale.