Vittorio Nisticò
Si chiamava Vittorio Nisticò, classe 1919. Lucido, curioso, lettore instancabile di libri e giornali, fino a poche settimane fa si divertiva ancora a dirci perché quel titolo andava fatto così e perché quell'articolo doveva essere scritto in modo diverso e “non con quel linguaggio che mostra solo la pigrizia di chi lo ha scritto”. E sì, per Nisticò il giornalismo stava tutto lì: nella capacità di trovare una notizia, un dettaglio, una fotografia.
Ora che se n'è andato, ora che i suoi occhietti guizzanti e lucenti sono stati per sempre sigillati dalla morte, la tentazione è quella di parlare della sua tenerezza e della sua caparbietà. Due doti con le quali riusciva a tenere insieme tutti noi, tre generazioni di giornalisti cresciuti alla sua scuola. La scuola de L'Ora, quel quotidiano del pomeriggio, che negli anni della mafia spavalda, seppe diventare a Palermo una fabbrica di coraggio e di controinformazione. Si chiamava Vittorio Nisticò, classe 1919. Lucido, curioso, lettore instancabile di libri e giornali, fino a poche settimane fa si divertiva ancora a dirci perché quel titolo andava fatto così e perché quell'articolo doveva essere scritto in modo diverso e “non con quel linguaggio che mostra solo la pigrizia di chi lo ha scritto”. E sì, per Nisticò il giornalismo stava tutto lì: nella capacità di trovare una notizia, un dettaglio, una fotografia. E non nel lavoro velinaro di chi copia un comunicato della questura o si accontenta di una spiegazione ufficiale, sapientemente distribuita dai palazzi del potere. Senza queste armi, del resto, L'Ora, che aveva come editore il Partito comunista di Togliatti e poi di Longo e poi di Berlinguer, non avrebbe mai contrastato per più di vent'anni l'egemonia del Giornale di Sicilia, il quotidiano di Palermo, a quel tempo impettito e ingessato come un ufficiale prefettizio. E non sarebbe mai riuscito a impensierire né un boss né un picciotto. Invece la mafia lo temeva, eccome. E tentò pure di farlo saltare in aria.
Il libricino blu dei ricordi
Qualche anno fa è comparso in edicola un libro piccolo piccolo – un libricino blu di Sellerio, “L'Ora dei ricordi” – che forse può aiutare a comprendere cosa avrebbe potuto essere e non è stato il giornalismo antimafia. E' il libro di Vittorio Nisticò, sulla storia de L'Ora di Palermo. E' la testimonianza appassionata di chi ha costruito e diretto quel giornale in anni difficili, dal '55 al '75, quando il potere siciliano rispondeva a nomi di tutto rispetto dietro i quali si muovevano, come complici o pupari, personaggi ben più cupi e scellerati: Angelo La Barbera, Pietro Torretta, Michele Greco, Giovanni Bontate, Gaetano Badalamenti, Nino e Ignazio Salvo. Erano, quelli, anni di fuoco: chi non ricorda la strage di via Lazio con il cadavere di Michele Cavataio raggomitolato sulle due pistole, una Luger e una Cobra, che non aveva fatto in tempo a usare; o la sparatoria della pescheria Impero con quel terribile fritto misto di sangue piombo e calamari; o l'autobomba di Ciaculli con sette giovani carabinieri straziati da una Giulietta imbottita di tritolo; o l'agguato di via dei Cipressi al procuratore Pietro Scaglione, crivellato di piombo mentre portava i fiori alla moglie morta da pochi mesi; o l'assassinio di Salvatore Galatolo, boss del Cantiere navale, sorpreso dai killer mentre serviva, tra i gelsomini dell'Acquasanta, il becchime ai suoi cardellini.
Roba da cinema americano. Invece era la cronaca nera di una città con la quale si dannavano giorno e notte i cronisti de L'Ora costretti da Nisticò a trovare una notizia in più del quieto confratello del mattino, il Giornale di Sicilia appunto, o una fotografia – “voglio ‘a mamma che piange, me ne frego della segnaletica della questura” – che invitasse il lettore a non guardare mai l'omicidio con l'occhio sbirresco della polizia, ma con la pietà che si deve a ogni disgraziata storia umana. C'erano, su L'Ora, pagine che strizzavano l'occhio, eccome, alla borghesia e ne accettavano vizi e virtù senza quel conformismo bacchettone che spesso inchiodava i giornali di partito al loro piccolo mondo antico. C'erano collaboratori, come Leonardo Sciascia o Bruno Caruso o Gioacchino Lanza Tomasi, in quel palazzetto fiammeggiato dal sole che venivano lì a raccontare le proprie letture o a discorrere dei propri dubbi. E c'era soprattutto un gran mestiere. Che imponeva di ancorare ogni articolo contro Cosa nostra a un intransigente rigore in modo da non lasciare spazio né alle incursioni degli avvocati pagati dai boss né alle pressioni, anche le più ravvicinate, della politica.
L'inchiesta, la prima inchiesta sulla mafia, fatta e pubblicata da L'Ora nel 1958, portò per la prima volta a galla quel verminaio che si estendeva da San Giuseppe Jato a Rocca Busambra e che aveva come epicentro Corleone e come capobastone un pecoraio destinato a grandi imprese criminali ma fino a quel momento del tutto sconosciuto: Luciano Liggio. L'Ora pubblicò la sua foto in prima pagina sotto un titolo a nove colonne, composto da una sola parola: “Pericoloso”. Sembrava un “wanted” del vecchio West. E ne ricevette, come immediata conseguenza, un attentato alla tipografia con quattro chili di tritolo e un boato che alle 4.52 di domenica 19 ottobre terrorizzò i palermitani che abitavano tra piazza Massimo e piazza Politeama. Era l'incollerita diffida del boss. Che non sarebbe mai scattata se Felice Chilanti, Mario Farinella, Marcello Cimino, Giuliana Saladino e Nino Sorgi, si fossero limitati a utilizzare per quelle otto puntate tre o quattro veline raccolte nei commissariati; o alcune paccate di verbali trovate nel sottoscala di una procura amica.
I giornalisti ammazzati
Altri tempi, si dirà. E in parte è vero perché il vertice del Pci, in quegli anni, non si abbandonava facilmente alle crociate. Non era né il partito delle manette né il partito delle procure e la questione mafia passava per le mani accorte di Paolo Bufalini, Emanuele Macaluso, Gerardo Chiaromonte. A rileggere le inchieste e i commenti scritti in quegli anni da Nisticò e dai suoi giornalisti affiora intanto una civiltà di linguaggio molto lontana dalla rozzezza dello sfregio o della mascariata. E vengono fuori soprattutto fatti e racconti di cui nessuno – né investigatori né magistrati – avevano mai saputo nulla e che i cronisti portavano allo scoperto, rimettendoci spesso anche la vita. Successe purtroppo a Cosimo Cristina, a Giovanni Spampinato, a Mauro De Mauro. Morti ammazzati per le notizie che avevano trovato e che avevano pubblicato su L'Ora.
Giornalismo investigativo, si direbbe oggi. Che a Palermo fece scuola e resistette pure nel tempo. Almeno fino agli anni del maxiprocesso, istruito da Falcone e Borsellino, con quella caterva di boss accatastata nell'aula bunker dell'Ucciardone e stordita dalla batosta che lo stato aveva finalmente saputo dare alla mafia. Falcone e Borsellino non erano magistrati che cedevano facilmente alle affettuosità giornalistiche. Non avevano alcuna passione vicaria, gli bastava quella per la giustizia. Ma il loro assassinio rovescia il mondo. Di fronte a tanto orrore e a tanta commozione lo stato si affida anche ai professionisti dell'antimafia, pur di vincere la battaglia decisiva contro Cosa Nostra. Ma non si accorge che già comincia la stagione delle inchieste politicizzate, dei magistrati “che puntano in alto” e che, per un pronto accomodo, danno la spallata all'odiatissimo sistema facendo a pezzi chiunque non trovi posto nella storia che loro vogliono riscrivere. E in quel gioco, basta un sospetto o la cantata di un pentito per azzoppare un uomo politico o un imprenditore.
E' l'onnipotenza dei puri che epurano. Che difficilmente avrebbero potuto prendere piede se, ai loro piedi, non si fossero schierate alcune corazzate del giornalismo nazionale. I cui inviati a Palermo – sia detto con le dovute differenziazioni, senza mai sparare nel mucchio – sono entrati a far parte del gioco. Alcuni di loro si sono appuntate le stellette e hanno fedelmente servito la rivoluzione – rivoluzione giudiziaria, s'intende – pubblicando l'indiscrezione giusta al momento giusto e mascariando così tutti quei personaggi che di volta in volta i procuratori ritenevano funzionali ai propri salvifici progetti. De L'Ora di Nisticò era rimasto ben poco. A che servivano le inchieste, quelle che magari ti facevano rischiare la pelle, se i magistrati ti impiattavano ogni giorno la loro minestrina di indiscrezioni, sospetti e insinuazioni? A che valeva scarpinare giorno e notte per trovare una notizia, quando bastava una cena o una festicciola col pentito, messo cortesemente a disposizione dalla ditta, per spararti in prima pagina uno scoop di quelli che facevano anche tremare i mobili?
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