Rodolfo De Benedetti
La mattina d'estate era una qualunque mattina d'estate in montagna: serena e non soffocante. Poche nuvole lontane, luce troppo forte, panorami, passeggiate. I due uomini in vetta al passo Sella e in sella alla loro bici si chiamavano James Murdoch, figlio di Rupert, e Rodolfo De Benedetti, figlio di Carlo – noto Ingegnere, ex tessera numero uno del Partito democratico, controllore supremo di Repubblica (anche ora che Rodolfo è amministratore delegato Cir).
La mattina d'estate era una qualunque mattina d'estate in montagna: serena e non soffocante. Poche nuvole lontane, luce troppo forte, panorami, passeggiate. I due uomini in vetta al passo Sella e in sella alla loro bici si chiamavano James Murdoch, figlio di Rupert, e Rodolfo De Benedetti, figlio di Carlo – noto Ingegnere, ex tessera numero uno del Partito democratico, controllore supremo di Repubblica (anche ora che Rodolfo è amministratore delegato Cir). Quel giorno di luglio due eredi di due grandi gruppi industrial-editoriali pedalavano esausti per la maratona ciclistica dolomitica. Nessuno dei due arrivò primo, tutti e due si piazzarono bene. Maratona ciclistica: roba per gente come Rodolfo, uno che ha abbandonato lo sci da discesa, sport in cui eccelleva come un maestro esperto, per lo sci di fondo, sport di resistenza – e gli amici che hanno visto Rodolfo faticare silente su per i pendii poi hanno detto: “Questo è il suo sport anche nella vita”. Cioè: resistenza, rigore, autodisciplina, competizione implacabile ma pacata. Con un senso del dovere innato fattosi calvinista negli anni dell'università in Svizzera.
Rodolfo De Benedetti – quarantotto anni “portati da uomo asciutto che mangia poco e ascolta molto” (come dice un osservatore di costumi finanziari), scuro di occhi e di carnagione, composto nei riccioli più del fratello Marco – di mestiere fa l'amministratore delegato Cir e Cofide, dopo il padre e con piglio diverso dal padre. Fa anche il presidente di Sorgenia e Sogefi e il consigliere di amministrazione in varie compagnie, ma si presenta prima di tutto dal nome Rodolfo. Un nome imponente, severo, ombroso, più cavalleresco che regale, specie se paragonato a quello serenamente comune e mediamente energico del suddetto fratello Marco. Chissà se i nomi hanno avuto influenza nel dispiegarsi, in direzioni diametralmente opposte, delle personalità dei ragazzi De Benedetti (il terzo si chiama Edoardo, nome nobile, e fa il medico). I ragazzi, comunque, sono cresciuti a Ginevra e dintorni in anni in cui i rampolli delle grandi famiglie venivano portati all'estero per scongiurare possibili rapimenti a firma Brigate rosse (in quegli anni i genitori portarono via da Torino anche Carlà, l'attuale première dame de France, e sua sorella Valeria Bruni Tedeschi).
Fatto sta che “uno che si chiama Rodolfo non può permettersi di ridere senza un motivo valido”, dice un anonimo uomo di mondo per descrivere il temperamento gentile ma non estroverso del Rodolfo che qualche giorno fa, in un'intervista al Financial Times, ha detto con poche parole tre cose molto indicative sul proprio carattere. Uno: “Non intendo fare commenti su Silvio Berlusconi”. Due: “Siamo l'intersezione delle cose peggiori. Siamo compagnia familiare, holding, conglomerata. E siamo italiani. Ma non è un male”. Se a questo si aggiunge il fatto che le frasi di Rodolfo sono state pronunciate in un momento di gran tensione tra il premier Silvio Berlusconi e il quotidiano Repubblica, di cui Rodolfo (con Cir) è proprietario sebbene Carlo ne resti il gestore massimo, si può forse dare ragione a chi attribuisce a Rodolfo, rispetto a suo padre, una minor attitudine al politicamente corretto (nel senso inteso dal quotidiano Repubblica). Toglie ogni dubbio la frase numero tre detta da Rodolfo al Financial Times: “Amo il mio paese e non sopporto quando l'Italia è criticata”, parole che possono essere interpretate sia come espressione di fastidio per il Cav. che sgrida gli industriali lamentosi e fa inorridire la stampa estera, sia come espressione di fastidio per la litania sull'Italia dalle dieci domande inevase – cavallo di battaglia di Repubblica – e per il contorno di fogli esteri oltremodo inorriditi. Sia come sia, forse categorie come la correttezza o la scorrettezza politica sono troppo anguste per descrivere le differenze caratteriali – e operative – tra padre e figlio e tra fratello e fratello.
Quanto Carlo, il padre, avvampa di entusiasmo, tanto Rodolfo, il figlio, è freddamente analitico, raccontano le cronache d'inizio 2009, momento di passaggio di consegne al vertice tra Carlo e Rodolfo. In molti si chiesero: che ne sarà del gruppo Espresso con Rodolfo che più di ogni altra cosa punta a creare valore per gli azionisti, in barba al ruolo di Repubblica nella politica nazionale anche se nel rispetto di Repubblica come quotidiano nazionale? E alla fine le dimissioni “da tutto” di CDB resero palese una divergenza di carattere e soprattutto una divergenza di opinioni sugli affari che covava da anni – CDB l'ex moschettiere degli arrembaggi finanziari contro Rodolfo, un giovane molto più “industriale” che “finanziere”. Se la divergenza fosse anche politica non fu chiaro, allora, ma ci fu qualcuno che lo sospettò.
Ci fu anche un corso di preparazione alla successione Carlo-Rodolfo, in sede prestigiosa. Rodolfo “trascinò” il padre alla Harvard Business School, scrisse il cronista finanziario Stefano Feltri sul Riformista: padre e figlio rinchiusi “una settimana, prezzo venticinquemila euro, sveglia alle sei, lezione alle otto e trenta, cena alle diciannove, a letto alle ventitré”. Titolo del corso: “Families in business. From generation to generation”.
Lo zio di Rodolfo, Franco Debenedetti, fratello di Carlo, racconta di essere rimasto “molto colpito” dall'intervento che fece suo nipote al convegno dell'Istituto Bruno Leoni in cui si presentava l'Indice della libertà economica: “Era la prima volta che ascoltavo un suo discorso di interesse politico. Mi ha fatto piacere constatare una così esplicita adesione a principi liberali. Ma soprattutto, di fronte ad interventi di altri relatori, in cui si disquisiva sulle cause profonde per cui le cose, ahimè, non sono come si vorrebbe che fossero, spiccava la convinta semplicità con cui Rodolfo riportava le cose per terra, chiamando le responsabilità con il loro nome. Ho rivisto in lui il mio entusiasmo di vent'anni fa. Le cose importanti, di solito, non sono semplici: bravi, e Rodolfo lo è, sono quelli che sanno semplificare”.
Rodolfo ha semplificato tanto, specie nei rami improduttivi delle attività familiari, creando invece da zero un settore energia e un settore sanità, e ha messo a frutto gli studi matti e disperatissimi e l'esperienza in aziende estere, senza mai ipocritamente nascondere di essere stato assunto in una di queste aziende perché figlio di suo padre – cosa che lo rende simpatico a dispetto del sorriso rarissimo. “Chapeau”, dice Carlo Rossella: “Ho grande stima di Rodolfo, ragazzo intelligentissimo”. Non si sa invece che cosa pensi Rodolfo di Carlo Rossella e di chiunque altro non faccia parte del giro Repubblica, perché Rodolfo, quando si reca con persone del giro Repubblica in un noto ristorante romano sul Palatino, non esprime mai direttamente l'eventuale e non provata prevenzione verso il mondo berlusconiano. Rodolfo, dice chi si imbatte casualmente in Rodolfo, è sempre cortese. Il fatto che sia nato a Torino favorirebbe l'uso della dicitura trita e ritrita “falso e cortese”, ma le frasi dette da Rodolfo al Financial Times testimoniano invece un genuino distacco dal clima “dieci domande”.
In famiglia Rodolfo è quello che ha sposato bene, anzi più che bene. Sua moglie – l'esile, bionda e febbrile Emmanuelle, attiva nel sociale e scrittrice di romanzi a sfondo politico internazionale – di cognome fa de Villepin come suo cugino Dominique, ex ministro degli Esteri francese bello come lei, uno che in gioventù parlava a tutti di Emmanuelle come della ragazza più meravigliosa di Francia. Questo pensò pure l'attore Christopher Lambert, fidanzato con Emmanuelle prima di Rodolfo. Se Cristopher era affascinante come Rodolfo, era pure scapestrato come Rodolfo non è mai stato e non ha mai voluto essere. Rodolfo “è chiamato dagli amici ‘il Che Guevara dell'editoria', anche ora che non è più nell'editoria”, dice Lina Sotis parlando al contempo di una falsa percezione: “Rodolfo ha l'aria tenebrosa ma non è tenebroso”. E però a una giornalista economica milanese Rodolfo ricorda “il bello impossibile della canzone di Gianna Nannini, quello con gli occhi neri dal sapor mediorientale”. Poco importa, perché Rodolfo ha occhi solo per la moglie Emmanuelle. “Sono proprio una bella coppia che si ama da oltre venticinque anni”, osserva Lina Sotis.
A Milano la coppia si vede poco in giro e molto a cene raccolte in casa, a via Gesù, pieno quadrilatero della moda, non lontano dall'ufficio in via Ciovassino, piena Brera. Un paio di avventori ricordano, della loro casa, “il tavolo insollevabile” e gli ottimi soufflé al formaggio preparati da Emmanuelle. Ci furono tempi d'oro del salotto De Benedetti, tempi in cui si invitavano direttori di giornali del calibro di Ferruccio de Bortoli e Giulio Anselmi. Erano tempi “cross-border” tra Repubblica, Corriere e Stampa (e insomma non si vedevano, come oggi, scambi di lettere e polemiche tra Scalfari e de Bortoli ). Erano giorni in cui Emmanuelle presentava il suo primo libro alla presenza e con l'applauso di Piergaetano Marchetti, vertice Rcs. Mai e poi mai l'intermittente e non gridata mondanità di Rodolfo ed Emmanuelle assomigliò alla mondanità romana che accoglieva i cognati Marco De Benedetti e Paola Ferrari (anche se Paola raccontò di aver conosciuto Marco proprio a casa di Emmanuelle e Rodolfo, presentata da Alba Parietti). I conoscenti milanesi di Rodolfo ed Emmanuelle, tuttavia, non vedono spesso insieme i due fratelli e le due mogli e dicono che i due fratelli sono molto diversi e hanno un diverso rapporto col denaro – parsimonioso Rodolfo, rilassato Marco. Resta imperituro il ricordo della macchina Audi di evidente seconda mano che Rodolfo comprò in anni in cui era già in cima all'organigramma dell'impresa di famiglia. Certo è che il parente più frequentato da Emmanuelle e Rodolfo è Mita, madre di Rodolfo, nonna delle tre elegantissime sorelline Alix, Neige e Mita – chiamata come la nonna, appunto, seppure tardivamente, ché Emmanuelle esclamò, quando nacque la terzogenita: “Peccato non averci pensato prima”. Mita senior accompagna Mita junior a scuola, e tutti le chiamano affettuosamente “Mita e Mitina”.
Emmanuelle intanto si occupa molto più di bambini malati (con la fondazione Dynamo) e molto meno di moda, anche se ci furono attimi di pura intesa artistica con Krizia – pare che Emmanuelle, sui divani rossi di un salotto appositamente allestito, organizzasse una volta l'anno serate tra moda e beneficenza al cospetto di firme illustri, Natalia Aspesi in testa, e che un giovane nipote de Villepin sfilasse per Krizia. Pare che ancor più spesso i coniugi De Benedetti si intrattenessero in conversazioni di sicuro spessore con Gae Aulenti, Inge Feltrinelli, Luca Cordero di Montezemolo e Gad Lerner, invitati assieme a professori francesi di passaggio. Poi Emmanuelle scrisse il suo secondo e più noto romanzo, “La ragazza che non voleva morire”, storia di una mancata kamikaze cecena. Fu successo in Francia e profluvio di dichiarazioni estasiate a Milano – quanto poi i milanesi fossero effettivamente interessati alla Cecenia non è dato sapere, ma una conoscente della coppia dice: “Emmanuelle ha contribuito a sensibilizzare i milanesi sul tema”. Fu quel libro a rendere Emmanuelle ancora più netta nella sua “r” francese (“cristallina”, la definisce un'amica), ancora più dedita alla charity e sempre più stimata nell'entourage debenedettiano – il suocero Carlo la considera “la sua quarta figlia”, racconta un testimone invitato al settantesimo compleanno di CDB.
Si è più accondiscendenti come suoceri e nonni che come padri, si sa. Ma oggi Rodolfo e Carlo, divisi dal temperamento, “si sentono uniti dall'intelligenza egualmente acuta anche se diversamente indirizzata”, dice un'amica. Rodolfo usa spesso locuzioni come “estremamente fastidioso” quando qualcosa lo fa arrabbiare, ma non direbbe mai, in pubblico, “sono arrabbiato”. Carlo è meno incline ai giri di parole. Rodolfo non vede nell'avventura editoriale e politica il fascino che ci ha sempre visto il padre. Il padre, dal canto suo, non ha mai smesso di dire al figlio “vieni da noi” quando il figlio restava lontano, al freddo, a Ginevra e poi a New York, in efficientissime banche svizzere e collaudatissime compagnie americane – dove ha imparato a essere pragmatico in tema di dividendi. A Rodolfo, e l'ha detto Rodolfo, “le manovre di potere non interessano”. Il resto è storia di Carlo (e di Repubblica).
Il Foglio sportivo - in corpore sano