Andrea Agnelli
Andrea Agnelli guarda davanti a sé. A sinistra ha Beppe Marotta, ancora più a sinistra ha Jean-Claude Blanc. Non parla nessuno. Ancora lo sguardo dritto, sul campo del Bari dove la Juventus sta perdendo alla prima giornata del campionato. Che pensa, Andrea? Che fa? La Juve è un problema è il primo a saperlo. E' affetto, amore, famiglia, business, storia, passato, gioie, dolori. Ora il problema è un suo problema.
Andrea Agnelli guarda davanti a sé. A sinistra ha Beppe Marotta, ancora più a sinistra ha Jean-Claude Blanc. Non parla nessuno. Ancora lo sguardo dritto, sul campo del Bari dove la Juventus sta perdendo alla prima giornata del campionato. Che pensa, Andrea? Che fa? La Juve è un problema è il primo a saperlo. E' affetto, amore, famiglia, business, storia, passato, gioie, dolori. Ora il problema è un suo problema. S'è caricato l'affare più difficile da gestire: il pallone rotola per i fatti suoi, finisce nella tua porta e ti crolla addosso tutto. L'umore di 14 milioni di tifosi è più complicato da gestire di una trattativa sindacale. Qui non ci sono nuovi modelli di relazioni industriali da importare o da esportare, non c'è l'appoggio politico-economico-sociale di un gruppo più o meno grande di italiani. Qui è drammaticamente tutto semplice: vinci e sei un Messia, perdi e sei un profeta di sventura. La Juventus è la costola incrinata del mondo Agnelli. Puoi modellarla finché vuoi, puoi cercare un rattoppo, puoi imparare a gestire il fastidio che ti provoca, ma poi un giorno tornerà a farti male comunque. Come adesso. Perché la situazione è complicata: la chiamano transizione, è un modo gentile e intelligente per dire che sono in mezzo a non si sa bene che cosa. Girano gli uomini, si cambiano le facce, si modificano le qualifiche: il programma prevede un assetto nuovo sul medio-lungo periodo, però adesso è una scatola da riempire. E poi c'è tutta la storia della sfida sotterranea con il Cav. Andrea doveva essere il simbolo di una grande famiglia che tornava a dare le carte nell'olimpo del calcio e che in un lampo si sarebbe sbarazzata di tutti i Moratti e di tutti Berlusconi che in questi anni, sportivamente parlando, avevano fatto dimenticare gli storici successi dei principi di casa Agnelli. Un simbolo che però sulla sua strada ha trovato molti più problemi di quanti ne avrebbe mai potuti immaginare.
Andrea è arrivato ad aprile, quando la stagione peggiore della storia juventina ha toccato il punto più basso. Lavora oggi per rimettere in piedi un club dalle macerie della ricostruzione fallita dopo l'inchiesta penale-sportiva che quattro anni fa ha mandato la Juventus in serie B. Ha cambiato molte persone, ha preso gente con cui aveva già lavorato, come Claudio Albanese, nuovo direttore della comunicazione del club. Lui è presente, segue la squadra ovunque, si ferma a parlare con i tifosi, firma autografi, affabile, gentile, disponibile come a volte solo un Agnelli sa essere. Sa che tutto è legato ai risultati della squadra, perché è bastata una sconfitta per cominciare a far ritornare il frastuono che accompagna le vicende della Juventus da qualche anno. Torino è una città che calcisticamente vive di mezze frasi più che di verità assolute. Allora il presidente accende il condizionatore del suo ufficio e rilascia la prima intervista televisiva con Sky. Gli chiedono come si sente quando viene fuori che nei corridoi della sede del club lo chiamano tutti semplicemente Andrea: “Quando ero più giovane ho lavorato in questi uffici per una serie di mesi e molte di queste persone sono ancora qua quindi il rapporto sicuramente con alcuni è molto amichevole. C'è chi mi chiama solo Andrea, è vero, però è chiaro a tutti che io oggi sono il presidente della Juventus”. Non sbaglia una risposta, non rifiuta alcun argomento, apre e chiude fronti. Sa che la Juventus oggi è destabilizzata da due fronti: la parte pre calciopoli da un lato e quella che ha gestito invece il recente passato. E' uno slalom: vecchio, nuovo, nuovo, vecchio. Lo spiffero che gli fanno arrivare di tanto in tanto è quello su Giraudo: “Con il ritorno di Andrea, la Juventus è di nuovo nelle mani del suo amico Antonio e forse anche di Moggi”. La domanda arriva perché non può non arrivare. La risposta pure: “Moggi nel periodo che ha lavorato da noi e anche prima, era sicuramente uno dei più grandi operatori a livello continentale del mercato. Noi oggi abbiamo fatto una scelta precisa che è quella di Marotta. Quindi Marotta è la persona che è pienamente responsabile e opera per noi, io mi sento costantemente con Marotta. Per quanto riguarda il dottor Giraudo è diverso perché io sono cresciuto con lui, è più di un amico come ho avuto modo di dire anche in altre occasioni, è come un secondo padre e quindi gli affetti vanno sempre sopra tutto. Ma le scelte sono prese in totale autonomia da noi: da me, da Marotta e da Blanc”.
Ma la Juve non è ancora una società completamente ristrutturata. Le scelte, sì. L'autonomia, pure. Ma da chi, da che cosa. Forse bisognerebbe chiedere se all'interno del terzetto tutto sia condiviso e condivisibile. A cominciare dalla scelta dell'allenatore. Perché Jean-Claude Blanc aveva già praticamente fatto firmare il contratto a Rafa Benitez lo scorso giugno. Lo scrissero i giornali senza mai essere smentiti. Fu fermato a un secondo dalla firma. E' arrivato Luigi Del Neri. Sono arrivati molti giocatori: li ha scelti Marotta, ovvio. Poi ne sono arrivati altri che sembrano quasi smentire gli acquisti fatti in un primo momento. E ora? Nell'ultima settimana di mercato la Juventus ha dovuto accettare il rifiuto degli attaccanti Antonio Di Natale e Marco Borriello, e quello del difensore Nicolas Burdisso. C'è qualcosa che non funziona. Andrea dev'essere arrabbiato e triste. Non in pubblico, ci mancherebbe. Però questa Juventus non è la Juventus. Non ora, non ancora. Già, ma qual è il problema? E' fuori? E' all'interno? Sono gli altri che non vedono più nel club di Torino il massimo che il calcio possa offrire? O è la società che deve mettersi a posto prima di poter tornare competitiva? Qualcuno risponderà al presidente. Qualcuno deve farlo. Dicono che Andrea sia esigente, preciso, puntiglioso. Lo è negli uffici di Corso Galileo Ferraris, così come in quelli della sua finanziaria, la Lamse, costituita nel 2007. Lo è meno nella sua altra attività, l'avventura della Add, la casa editrice fondata con Michele Dalai e Davide Dileo, cioè Boosta dei Subsonica. E' tutto un vai e vieni tra il pubblico e il privato. Tutti vogliono sapere com'è il nuovo Agnelli, anzi l'ultimo. Perché dei 150 discendenti della famiglia torinese, è rimasto l'unico con quel cognome e quindi anche l'unico che possa continuare a farlo circolare. Qualcosa si sa e cioè che sua moglie Emma, inglese conosciuta in Svizzera, lo descrive geloso e bravo in cucina: piatto migliore i calamari ripieni. Ama l'arte contemporanea, ma soprattutto la Juve. Ha sofferto la storia di calciopoli, l'ha fatto in silenzio, ereditando uno stile e un approccio che evidentemente gli sono stati trasmessi dal padre Umberto. Si ricorda che con lui, Andrea avesse un rapporto molto forte. Qualche tempo fa First, il mensile di Panorama ha pubblicato delle foto di Andrea bambino con un pallone in mano e il padre accanto. Un quadro familiare di affetto e calcio, di amore e complicità, eppure anche di rispetto delle regole che il padre imponeva in famiglia, come ricordata da Marco Ferrante nel suo libro Casa Agnelli (Mondadori): “La sera Umberto andava a cena alle 19.45 con una franchigia di quindici minuti per Andrea. Ma a cinque minuti dallo scadere della franchigia, il ragazzo doveva telefonare nel caso non ce l'avesse fatta ad arrivare in tempo”.
A molti dell'ambiente pallonaro e non solo, Andrea ricorda il padre. Scherza, sorride, è amichevole, però non ama che le cose non funzionino. Questa è la sua azienda, adesso. Deve funzionare come vuole lui. Perché lui non l'ha mai abbandonata, semmai è stato il contrario. A un certo punto è sparito dalle tribune: mai allo stadio, lui che prima c'era sempre, a volte anche sul campo prima della partita. Gli hanno chiesto anche questo e non ha sbagliato risposta neanche stavolta: “La Juventus è anche una società quotata e quindi viene demandato ai manager di gestirla. In quel momento particolare io ho pensato che la mia figura potesse essere anche ingombrante per loro, visto quello che è stato il mio trascorso e quindi per metterli nelle migliori condizioni di poter lavorare la scelta è stata quella di non essere presente. Sempre da tifoso… grazie anche a voi ho avuto modo di seguire la squadra sempre molto da vicino”.
Il riferimento è alla tv a pagamento e neanche un accenno a quella storia che circola insistentemente a Torino e cioè che a non volere Andrea allo stadio fosse il resto della famiglia. Si dice che a un certo punto gli abbiano persino negato dei biglietti. Destabilizzare la famiglia Agnelli è una delle pratiche più diffuse a Torino come altrove. C'è sempre qualcuno che dice più di quanto sia vero, ma la Juventus contribuisce ad alimentare leggende o realtà in maniera direttamente proporzionale ai suoi nuovi insuccessi sportivi: le cose vanno male? Una voce diventa una certezza. Una tensione familiare diventa lite. Un confronto all'interno delle aziende diventa scontro sull'eredità industriale e sul futuro. Il problema è che però se depuri di alcune esagerazioni alimentate dalla leggenda popolare e dal circo pallonaro resta comunque un clima che negli ultimi anni a volte non è stato sereno. Anche questo l'ha raccontato Marco Ferrante in Casa Agnelli: “Andrea Agnelli si trovò a essere il punto di raccordo della fronda interna quando, dopo la morte di suo padre, la situazione della Fiat era a un passo dalla catastrofe e l'effetto Marchionne non si era ancora sentito. La questione fu più o meno la seguente. Nel settembre del 2005, alla vigilia dell'assemblea dell'accomandita dove si sarebbe ratificata la decisione di procedere con l'equity swap per riportare la famiglia sopra il 30 per cento dell'azionariato Fiat, Andrea Agnelli rilasciò un'intervista in cui espresse contrarietà all'operazione. Riteneva che la condizione di quel momento, con la famiglia al 22 per cento e le banche al 28 per cento, era l'occasione per mettere in piedi una public company. Si sarebbe reso esplicito il fatto che l'interesse era la crescita dell'azienda e non il gioco di potere (…). La tensione ebbe due picchi. Dopo l'intervista, la Stampa, il giornale di famiglia, sottolineò che Andrea Agnelli aveva espresso posizioni personali e che all'Ifil era in carico come stagista: in realtà era anche consigliere d'amministrazione Fiat e portavoce con una quota del 10 per cento circa dell'accomandita che detiene insieme a sua sorella Anna. Il secondo momento di tensione riguardava la Juventus. La vicenda Moggi diventa uno strascico dell'antico confronto tra Gianni e Umberto. I ganniani, che sono sempre stati anti-moggiani, assecondano la giubilazione di Moggi e ne accettano le conseguenze – cioè la Juve in serie B per la prima volta nella sua storia –, mentre gli umbertini continuano a difendere Moggi e Giraudo, con cui Andrea Agnelli ha rapporti eccellenti, ma soprattutto non sono d'accordo con la nuova dirigenza che accetta la cancellazione di due scudetti, smantella quella che alcuni considerano la squadra più forte del mondo e si lascia retrocedere in B”.
L'eredità di quello scontro oggi è una pace che sembra convenire a tutti: quando l'anno scorso John Elkann e Andrea Agnelli sono stati visti arrivare al centro sportivo di Vinovo per fare insieme gli auguri di Natale alla squadra che in quel momento viveva uno dei molti periodi difficili della stagione scorsa, tutti hanno raccontato la nuova alleanza familiare nel nome dell'interesse collettivo. Eppure a ogni telefonata c'è sempre qualcuno che tira fuori l'ipotesi dell'inchiesta di calciopoli come risultato della guerra familiare. Leggenda e mezze verità si sovrappongono, condite dall'ovvio carico di suggestioni che solo il pallone è in grado di creare: a volere il crollo della Juve sarebbe stata quella parte di famiglia e azienda che non aveva digerito la presa di posizione di Andrea sull'equity swap. C'è una parte di Torino e d'Italia che ci crede, ce ne è un'altra che la ritiene solo una fantasia. C'è che a volte il caso vero o quello creato a tavolino alimenta le voci. Così per mesi, l'ala elkanniana della famiglia ha lasciato trapelare il proprio disappunto per un presunto sgarbo di Andrea. Lui è l'amministratore delegato e l'anima del circolo golfistico Royal Park del quale è presidente la madre allegra Caracciolo. Ecco, nel 2009, l'Open d'Italia è stato organizzato lì. Bello, bellissimo, solo che lo sponsor del torneo era Bmw, che in casa della Fiat non è sembrato un caso.
La Juventus entra ed esce dalle storie familiari e aziendali. Le sue vicende affascinano perché sono la parte comprensibile a tutti di un intreccio economico-manageriale-familiare di una dinastia della quale tutti parlano da decenni. Un romanzo che mescola l'avventura, la passione, il giallo. Piace come una telenovela di alto livello, intriga come quelle storie in cui bisogna cercare la verità dietro i sorrisi e le parole di circostanza. Perché c'è sempre la possibilità di una doppia lettura, specie quando di mezzo c'è la Juventus. Adesso tutti vorrebbero chiedere ad Andrea com'è il suo rapporto con il procugino John. Chi lo fa prende questa risposta: “Noi stiamo vivendo come famiglia un momento di profonde trasformazioni, dove diverse persone di noi hanno un ruolo di responsabilità sia interne che verso il mondo esterno. In primis non posso che pensare a mio cugino John, ad Alessandro Nasi o a Lapo. Quindi siamo una generazione di trentenni che – visto il contesto in cui ci siamo trovati – ha dovuto assumersi delle responsabilità molto importanti. Sono consapevole del fatto che il mondo del calcio è un mondo che va molto veloce e procura il rischio di bruciarsi, però l'unione e la compattezza che abbiamo in famiglia fa sì che questo rischio possa essere attenuato perché tutte le decisioni vengono quasi sempre condivise. Con John noi abbiamo un rapporto e un confronto continuo e costante perché cerchiamo di ragionare su tutte le varie problematiche delle partecipate di Exor. Quindi noi ci vediamo regolarmente per discutere di questa o quella società, di questo o quel manager, di questo o quel problema a cui andiamo incontro. Quando la situazione della Juventus ha iniziato a precipitare l'anno scorso abbiamo anche cominciato a parlare di quale sarebbe stato il miglior assetto per la Juventus per la stagione 2010/2011. Nel fare questi ragionamenti assieme abbiamo condiviso che il miglior modo era quello di prendere un posizione diretta come famiglia e quindi, essendoci le condizioni per poter far bene, abbiamo poi deciso che io mi assumessi la responsabilità diretta”.
Il ritorno di Andrea sembra essere stato frutto di una convergenza di necessità. Alla famiglia serviva un uomo che fosse immagine e sostanza, che avesse esperienza, nome, intelligenza, rango, popolarità in grado di ricompattare tutto il mondo che ruota attorno al pallone. Ad Andrea serviva avere qualcosa di familiare che fosse molto suo. Ai procugini serviva non dover essere chiamati in causa e uscire di scena dal calcio dopo essere stati considerati dai tifosi coloro che hanno accettato passivamente e silenziosamente la mortificazione di calciopoli. Ecco la triangolazione. Uno, due, tre. Il comunicato, il ritorno, un Agnelli alla guida della Juventus dopo 48 anni, cioè dopo la presidenza del padre Umberto conclusa nel 1962. Andrea felice, in quel momento. Un po' meno oggi che il campionato è cominciato, che le cose non funzionano, che la transizione, come la chiamano, comporta ancora molte cose da aggiustare e quindi un caos mascherato. Lui ci crede. Il progetto del nuovo stadio è l'investimento per il futuro: il giovane Agnelli crede che possa portare sicurezza, ma soprattutto soldi. E' il suo ottimismo e anche la sua formazione. Perché uno che s'è istruito a Oxford e che ha cominciato a lavorare in una multinazionale ha maturato la convinzione che lo sport possa portare ricavi soltanto se gestito come una società vera. La passione, certo. Però il business. Tifoso e manager. Non è questa la sua Juventus: è un embrione. Nel suo club non ci potranno essere ex calciatori come il brasiliano Diego che alla prima intervista post-juventina si lamentino di come sono stati trattati a Torino. E' successo, non deve succedere. A lui piace quella dinamica che c'era una volta: la Juventus era la Juventus. Nessuno ne parlava male, perché in fin dei conti arrivarci era l'obiettivo della vita. Allo stesso tempo la società non aveva alcun bisogno di sembrare diversa da quello che era. Va bene farsi amare dai tifosi, punto. Essere simpatici agli altri è inutile. Significa che non vinci.
Il Foglio sportivo - in corpore sano