Il ganzo Giulio di Palermo

Claudio Cerasa

C'è sempre un istante, quando si è piccoli e si gioca a pallone, in cui il mister, dopo giorni e giorni di allenamenti sfiancanti, di esercizi estenuanti, di addominali snervanti, di gradoni massacranti e di interminabili corse sul terriccio pietroso degli squallidi campetti di terza categoria, decide che è arrivato il momento di fermarsi un attimo, di interrompere la preparazione atletica e di cominciare a tirar fuori quello che tutti sognano dal primo minuto del primo allenamento del primo giorno di scuola calcio: gli undici numeri.

    C'è sempre un istante, quando si è piccoli e si gioca a pallone, in cui il mister, dopo giorni e giorni di allenamenti sfiancanti, di esercizi estenuanti, di addominali snervanti, di gradoni massacranti e di interminabili corse sul terriccio pietroso degli squallidi campetti di terza categoria, decide che è arrivato il momento di fermarsi un attimo, di interrompere la preparazione atletica e di cominciare a tirar fuori quello che tutti sognano dal primo minuto del primo allenamento del primo giorno di scuola calcio: gli undici numeri. In quell'istante, l'allenatore convoca i giovani marmocchi con un soffio nel fischietto, li fa sedere senza un ordine preciso a pochi metri dalla panchina, chiede di prestare un po' d'attenzione solo per qualche minuto e, dopo averli scrutati uno a uno con lo stesso sguardo di un professore severo pronto a consegnare agli atterriti alunni i risultati delle prime disastrose versioni di greco, inizia lentamente ad aprire la cerniera del proprio borsone e poi, a poco a poco, comincia a fare la conta: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici. Undici maglie. Una per ogni titolare. E quella maglia lì, ovviamente, all'inizio della carriera, Giulio Migliaccio non la riceveva quasi mai.
    Già, Giulio Migliaccio.

    Giulio Migliaccio è quello con il capoccione lucido senza capelli, è quello con il numero otto sulla maglia rosanero, è quello dell'esultanza alla Tardelli, è quello dei contrasti a centrocampo, è quello dei recuperi al novantesimo, è quello con lo sguardo alla Vin Diesel ed è quello – verrebbe da dire soprattutto, ma vedremo che non è affatto così – della zuccata grazie alla quale il Palermo, appena quattro giorni fa, ha conquistato contro il Milan l'inaspettato e insperato accesso alla finale di Coppa Italia: con quel calcio d'angolo battuto da Ilicic, con quella palla tesa in aerea di rigore, con quella difesa del Milan imbambolata e con quella palla colpita di testa da Migliaccio e finita proprio lì, nell'angolino in basso, alla sinistra di Christian Abbiati.

    Certo, è chiaro: a prima vista si potrebbe anche pensare che quello di Migliaccio, in fondo, sia stato soltanto un gol importante in una partita importante contro una squadra importante in un'occasione importante; ma la verità, beh, è che dietro quell'esultanza, dietro quello stacco e dietro quella liberazione per nulla soffocata dentro l'urlo di Migliaccio si nasconde la storia di un giocatore un po' particolare che appartiene a una gagliarda razza calcistica in via d'estinzione che negli anni delle strafighette epopee dei David Beckham, dei Fabio Cannavaro e dei Cristiano Ronaldo ha deciso di impegnarsi seriamente per provare a far riscoprire in tutti i modi al grande pubblico la bellezza di una vita da mediano. Una vita senza eccessi, come si dice in questi casi, senza follie, senza pazzie, senza manie e senza quella voglia matta e disperata di dimostrare a tutti i costi di essere allo stesso livello, alla stessa statura e alla stessa altezza di tutti quei calciatori nati non con i piedi fucilati ma con due magnifici piedi fatati. Perché nel calcio lo sanno tutti come funziona, e lo sanno tutti che per chi non nasce con i piedi dorati, e per chi non ha la fortuna di ritrovarsi da bimbo con un baricentro perfetto, con un tocco pregiato e con un controllo delicato, a un certo punto della carriera sei costretto a fare una scelta. Se arrenderti di fronte allo spietato allenatore che non apprezza le tue doti tecniche, e che ogni volta, alla fine della settimana, dopo tutti quegli allenamenti, quei gradoni e quegli scatti, sceglie di non darti la maglia da titolare; o se invece metterti lì, alla fine degli allenamenti, a perdere più tempo degli altri, a imparare a palleggiare, a imparare a calciare, a imparare a dribblare, a imparare a scartare, a imparare a stoppare e, insomma, a non rassegnarti a diventare un campione pur essendo nato tragicamente con due terribili piedoni di balsa. E in fondo, è sufficiente studiare appena per un attimo la storia di Migliaccio per capire come di fatto, nel campionato italiano, in mezzo a tanti fenomeni veri o per lo meno presunti, esista qualcuno che è stato capace di diventare un simbolo, un idolo e semplicemente un beniamino di una grande tifoseria, come quella del Palermo, senza aver avuto bisogno alcuno di costruire la propria immagine da gladiatore solo con un simpatico ringhio sempre pronto a essere servito al momento giusto a favore di telecamera. E invece Migliaccio no: Migliaccio ha scelto una strada un po' diversa per diventare indispensabile: una strada più umile, una strada più difficile, una strada più tortuosa ma una strada che, comunque, nel corso del tempo gli ha permesso di diventare forse l'unico vero esempio di un grande antieroe di successo del mondo pallonaro. L'unico vero anti Gattuso d'Italia, per capirci: uno che per ringhiare non ha bisogno di digrignare i denti di fronte al fotografo, uno che per farsi sentire in campo non ha bisogno di farsi mettere una foto sulla copertina di qualche giornale, uno che se non gioca non ha bisogno di chiedere un'intervista a un settimanale e uno che, così, per farsi sentire, sul terreno di gioco usa solo gambe, piedoni, testa e tacchetti: e il resto non conta.

    E Migliaccio – che oggi ha ventinove anni e che gioca a Palermo da quasi quattro anni – è sempre stato così. E' sempre stato, come si dice in questi casi, il primo a entrare e l'ultimo a uscire dal campo. E' sempre stato quello che non si è mai arreso di fronte alla ferocia del mister, è sempre stato quello che non si è mai fatto intimidire dai risultati che non arrivavano, è sempre stato quello che non ha mai pensato di mandare a quel paese un suo vecchio allenatore, è sempre stato quello che, fuori e dentro il campo, ha semplicemente provato a dare a tutti il buon esempio. E' stato così quando ha cominciato a sgambettare sui campetti del Savoia, a Torre Annunziata, in provincia di Napoli. E' stato così quando è stato costretto a fare un passo indietro scendendo in serie D, nella Puteolana. E' stato così quando, nel 2000, a diciannove anni, è arrivato a Bari in serie A. E' stato così quando, l'anno dopo, è stato retrocesso tre gironi infernali più in giù, in serie C2, nel Giugliano.

    E' stato così quando è finito alla Ternana (2003, serie B), è stato così quando è sbarcato a Bergamo nell'Atalanta (2005) ed è stato così quando, il 6 gennaio 2005, a ventiquattro anni, in un'età non proprio tenera per un calciatore, è arrivato a Palermo, e finalmente ha esordito in serie A. E ogni volta, e ogni anno, sempre la stessa storia. E qualsiasi fosse l'allenatore, qualsiasi fosse il presidente, qualsiasi fosse la serie, qualsiasi fosse l'occasione, qualsiasi fosse la squadra, qualsiasi fosse la dirigenza, qualsiasi fosse lo stipendio, qualsiasi fosse la posta in palio, alla fine, in un modo o nell'altro, il ganzo Giulio si è comportato sempre allo stesso modo: senza mai protestare, senza mai ingiuriare, senza mai sbraitare, senza mai scalpitare e stando, semmai, sempre lì ad aspettare il momento giusto, la stagione giusta e l'anno giusto per far capire a tutti che per essere fenomeni ci sono delle strade diverse da quelle imboccate dai Messi, dai Cannavaro, dai Rooney e dai Ronaldo. E ogni anno diverso, ogni squadra diversa e ogni ruolo diverso, l'eroico anti eroe Migliaccio era sempre lì che seguiva i consigli del suo vecchio allenatore – tieni sempre la testa alta Giulio, ma ricordati di non alzare mai la cresta – ed era sempre lì che aspettava la stagione giusta, e l'occasione opportuna, per dimostrare che per vivere una vita da mediano esiste uno stile diverso da quello un po' sborone dei vari Gattuso. E quella stagione, che Migliaccio aspettava con la stessa pazienza con cui un canottiere o un nuotatore attende per anni l'Olimpiade che in un lampo ti può cambiare l'esistenza, alla fine, in mezzo a mille tribolazioni, in mezzo a mille pasticci societari, in mezzo a vari cambi di allenatore, in mezzo a centinaia di moduli mutati, è arrivata. E' arrivata con il Palermo, è arrivata con il suo allenatore Delio Rossi ed è arrivata con quella finale di Coppa Italia che i rosanero giocheranno a Roma, all'Olimpico, il prossimo 29 maggio, e che per un qualsiasi tifoso di una qualsiasi piccola squadra altro non è, quella finale, che il traguardo più ambito, più bramato e più desiderato per vedere almeno per un attimo, almeno per un istante e almeno per un giorno, l'immagine della propria squadra proiettata sull'olimpo calcistico delle grandi d'Italia. Una finale, poi, che i più giovani tifosi del Palermo aspettavano da quegli anni Novanta in cui i rosanero, guidati da uno splendido Gaetano Vasari, si erano illusi di poter dare a lungo spettacolo in Coppa Italia (finì male: ai quarti di finale: era il 1995) e che i tifosi più anziani, invece, sognavano di poter rivivere da quel maledetto 25 maggio del 1973, quando centinaia di tifosi palermitani, dopo una notte di inferno trascorsa stipati come le sardine in uno di quei terribili treni con le cuccette di seconda classe che sarebbero stati perfetti per ispirare uno qualsiasi dei migliori film di Ciprì e Maresco, arrivarono sempre a Roma e sempre all'Olimpico e si videro sfilare in finale, ai calci di rigore, dal Bologna del mitico Giacomo Bulgarelli, una Coppa Italia che all'epoca sembrava essere più che meritata.

    E così, trentasette anni dopo quei vecchi ricordi in bianco e nero, ecco che il Palermo ritorna di nuovo a Roma, di nuovo all'Olimpico e di nuovo in Coppa. E ci ritorna grazie alle performance di Pastore, certo, grazie agli scatti di Hernandez, grazie alle parate di Sirigu, grazie ai rigori di Bovo, grazie alle incursioni di Miccoli e grazie però soprattutto alle sgroppate del ganzo Giulio palermitano. Quel Migliaccio, tra l'altro, che prima di arrivare a Roma, nel mondo del pallone, ha fatto praticamente di tutto: tutto quello che gli ha sempre chiesto l'allenatore. Dietro, al centro, in avanti, a destra, a sinistra, laterale, attaccante, centrocampista, difensore, esterno, terzino, incursore, stopper, libero: tutto. E Migliaccio ha sempre fatto così: magari senza il guizzo che ti fa diventare il fenomeno, magari senza il colpo che fa innamorare i procuratori, magari senza lo scatto che fulmina i corsivisti, magari senza il ringhio che eccita i cronisti ma sempre con quel modo di fare, e con quel modo di giocare, che piacerebbe tantissimo anche, per dire, a uno come Francesco Giavazzi. Perché, sì, i tipi alla Migliaccio non sono come Totti, non sono come Ibra, non sono come Del Piero, non sono come Cassano, non fanno parte della categoria di quei giocatori che a torto o a ragione sono considerati semplicemente fenomenali e non vivono della luce riflessa dalla loro stella fortunata. Ma piuttosto, si sa, vivono nella consapevolezza che ogni anno, ogni stagione, ogni occasione, ogni partita, ogni gara e ogni preparazione, bisogna sempre conquistarselo, il posto; bisogna sempre conquistarsela, la fiducia; e bisogna sempre dimostrarlo di valerla davvero quella bella cifra con tanti zeri scritta sul contratto.

    Perché in mezzo al campo non si campa mai di rendita, e chiunque scelga di portare a termine una vita da mediano sa che in quel ruolo lì non ci sono certezze, non ci sono sicurezze, non ci sono garanzie eterne e, naturalmente, non ci sono alcun genere di contratti a tempo indeterminato. Flessibilità massima, dunque. Specie per quelli come Migliaccio. Per quelli, cioè, che è dall'inizio della carriera che vivono con l'incubo di quella definizione lì: il “Jolly”. E solo chi conosce un minimo il calcio sa che cosa significa quando l'allenatore ti si avvicina, e ti dice che ti vuole parlare, e ti spiega che non c'è nessun problema, e che l'altra volta hai giocato bene a destra, e che la volta prima hai giocato bene a sinistra, e che la volta prima ancora hai giocato bene al centro, e che tu giochi sempre bene, e che sei bravo davvero, e che sei forte sul serio, e che però scusa, scusaci veramente, ma non c'è una posizione dove giochi meglio, perché sei un jolly, sì, sei uno che ha mestiere, sei uno che è importante, ma sei uno che alla fine gioca solo quando serve, sei uno che alla fine gioca solo dove serve e sei insomma uno che sei prezioso, certo, che sei importante ovvio ma che scusaci tanto, davvero, ma non sarai mai davvero indispensabile. Ed è proprio lì, è proprio quando capisci che per quanto bravo tu possa essere tu resti solo un piccolo pedone utile a riempire il buco che si apre sulla scacchiera di gioco che hai due possibilità. Protestare oppure lavorare. E se ti chiami Gattuso e giochi nel Milan e giochi in Nazionale magari hai anche i giornali su cui ti è concesso lamentare. Ma se ti chiami Migliaccio e giochi nel Savoia e bene che va al massimo finisci al Palermo solo una cosa puoi fare: lavorare come i pazzi; e aspettare, semplicemente, che arrivi il tuo momento. Migliaccio ha fatto proprio così, e oggi non c'è dubbio che sia grazie all'esempio di quelli come lui che in Italia le cose per quelli con i piedi a banana un po' cambiate lo sono. Perché nell'epoca dei Ronaldo, dei Messi, dei Ronaldinho, degli schemi a dodici punte e degli alberi di Natale, succede che i Migliaccio, da perfetti sostituibili, si sono trasformati in fenomeni quasi imprescindibili: in quei giganti, sì, brutti sporchi e cattivi sopra le cui spalle, però, si muovono i campioni e senza le cui spalle i campioni proprio non riescono a giocare. Giganti che, naturalmente, lì in mezzo al campo si riconoscono per molte cose: si riconoscono per il tempismo, si riconoscono per le entrate, si riconoscono per le interdizioni, si riconoscono per le ripartenze ma soprattutto, è evidente, si riconoscono per l'efficacia reale di un colpo che solo chi ha giocato a pallone sa quanto sia difficile imparare per chi, come Migliaccio, oltre che i piedi a banana aveva anche la testa un pochino a spigoli. E chiunque da giovane abbia sgambettato almeno una volta sui campetti da calcio sa che a un certo punto degli allenamenti, a un certo punto della stagione, i ragazzi, quando si era piccoli, si dividevano sempre in due categorie distinte.

    Quelli che avevano la fortuna di accarezzare il pallone con il capo, e di indirizzarlo a loro piacimento in qualsiasi punto del campo; e quelli che invece ci mettevano anni anni e anni prima di riuscire a non trasformare ogni pallone sfiorato con il cranio in una scheggia impazzita. E Migliaccio era uno di questi: uno di quelli che non riusciva mai a dimostrare le proprie qualità, uno di quelli che non veniva mai calcolato dall'allenatore, uno di quelli che non era mai nell'undici titolare e uno di quelli, insomma, che non aveva solo i piedi a banana ma aveva anche il classico testone a martello. Ed è stato solo dopo anni di allenamenti sfiancanti, di esercizi estenuanti e di gradoni massacranti, è stato solo dopo anni passati a esercitarsi anche la notte con i compagni di squadra, è stato solo dopo anni passati a osservare i vari piccoli Maradona che con il pallone in testa, invece, ci salivano e scendevano pure dal tram che alla fine Migliaccio ha imparato a staccare al tempo giusto, a inserirsi nel momento giusto e a diventare, oltre che uno dei più bravi giocatori della serie A a colpire la palla con la testa (è stato calcolato che, pur essendo alto appena un metro e settantotto, ha un'elevazione pazzesca, di circa mezzo metro da terra), anche uno dei simboli più cristallini di quella vita-da-mediano-lavorando-come-Oriali-anni-di-fatiche-e-botte-e-vinci-casomai-i-mondiali. Perché quando si è piccoli e si gioca a pallone tutti sognano di diventare come Ronaldo o come Messi, ma sono davvero pochi quelli che hanno la forza di dimostrare che in fondo in fondo si può diventare fenomeni, come è successo a Giulio Migliaccio, anche con un gran bel paio di piedoni di balsa.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.