Odissea nello strazio: prendere l'autobus tutti i giorni
L’Atac è la metafora di una città che ha smesso di funzionare
Sognavo Milano, mi ritrovo a Roma, la città fottuta, quella di cui mi innamorai quasi tredici anni fa. Era il 2004, prima volta al Foglio, da stagista, ed era la prima volta che passavo un po’ di tempo a Roma e, da provinciale quale sono, ne rimasi folgorato. Una sera, tornando a casa, trovai un cinema in mezzo di strada, organizzato dal municipio, le poltroncine erano gli scalini di una scalinata e lo schermo era messo sull’altro lato. Ricordo anche il film: “Che ne sarà di noi”, di Giovanni Veronesi. Penso queste cose mentre sono a bordo dell’H, che fa Termini-Trastevere e Trastevere-Termini (quando arriva, se arriva) e capisco bene che Roma non è più la stessa.
Sto prendendo l’autobus tutti i giorni o quasi, e lo shock culturale è evidente.
Un fiorentino a Roma – ma che siam pazzi – abituato a una città piccola, tranquilla, che praticamente si autogoverna, al netto degli sbudellamenti per l’eterna costruzione delle linee della tramvia. Milano mi piace anche perché, pur essendo l’unica vera capitale europea che abbiamo, è piccola, i trasporti pubblici funzionano; sai quando parti e sai quando arrivi. A Roma non funziona un cazzo. Disfunzionale, disorganizzata. L’Atac è la metafora di una città che ha smesso di funzionare. L’H che parte dalla stazione è accolto da una piccola folla, tranne il lunedì del presunto Blue Monday, quando il bus è stranamente mezzo vuoto. Ha le sedie scarabocchiate, è sudicio come un baston da pollaio. Ma è meglio di quando straripa d’umanità varia, gente che bercia al telefono raccontando quanto sono deficienti i figli e cause penali in corso, come se ce ne fregasse qualcosa, a noi dell’H che già siamo in ritardo di un quarto d’ora su tutto. “Aò, me fai scende’?”, grida la signora che vuole essere lasciata sul lungotevere, in mezzo al traffico. Due accanto a me hanno un neanche troppo vago accento toscano (lui, quantomeno, che pare un’idrovora mentre la bacia per tutto il viaggio). Ehi, aria di casa! “Quanto tussei bella”. Nikon e cuffie Marshall. E giù di lingua.
L’aria è pesante, il sapone come l’onestà un giorno andrà di moda anche sugli autobus la mattina. Un signore grida al cellulare: “Non si coprono, sono irresponsabili, non hanno testa… A gennaio a Berlino… Mah”. Ripete questa frase varie volte, pare che sia andato in loop. Io nel frattempo provo ad ancorarmi come posso per oppormi alle buche romane, alle frenate dell’autista, che è pure un po’ scocciato quando gli fanno domande sulla destinazione della corsa, alla gente che guida un po’ come vuole e quindi fa frenare a random l’autista. Il combinato disposto fra il degrado urbano della Capitale e la guida a metà fra lo sportivo e il rapsodico degli autisti dell’autobus diventano un allenamento da palestra per braccia e gambe. Solo che fa pure caldo dalla gente che c’è, sicché alla fine un arriva sudato alla meta.
Fuori, intanto, tira un vento gelido che pare d’essere a Firenze. Ma come, questa città è una delusione continua, non s’era detto che a Roma il clima è mite, si sta bene anche in inverno? La tassista che una sera mi riporta alla stazione (avevo atteso l’H per una decina di minuti, poi l’alternativa diventava fra sperare ancora e perdere il treno) mi spiega che “aò, ho 58 anni ma tutto ‘sto freddo nun l’ho mai sentito”. Poi dilaga su tutto; la Raggi che non va, quelli di prima che non andavano, insomma fa tutto schifo, tranne Rutelli, richiamiamolo. “Nun ce fanno più contà ’n cazzo – scusi er latino – però siamo pur sempre er popolo sovrano eh”. Er popolo sovrano vorrebbe prendere un autobus in tempo, per esempio, ma non ci riesce. Sta lì al freddo ad aspettarlo su una banchina in Trastevere. All’aumentare dei minuti di ritardo, aumenta anche l’ansia per il rischio treno perduto. La presunta metropolitana d’Italia, dopo le 20.50 non ha più partenze. Non resta che il taxi. Grazie dotto’, sono dieci euro. Grazie Atac, per l’odissea nello strazio.