Non solo Esquilino, i rioni in bilico tra degrado e ripresa
Il sociologo Semi individua l’arrivo di “negozi vintage, birrerie artigianali e pasticcerie siciliane” come indizi della gentrificazione e anche come parte della degenerazione
Il punto è che gentrificare non conviene, per prima alla gentry. A Roma lo hanno capito e di fatto il processo non è partito neanche nella zona eletta a primo e più robusto tentativo, il rione Esquilino, con i suoi palazzi umbertini, i cui ampi volumi interni si prestavano alla creatività ristrutturante, e con la spinta autonoma al trasferimento in zona arrivata negli anni ‘80, quindi proprio al momento giusto, da un gruppo di intellettuali con redditi legati al cinema e alla tv.
Apparì il termine nel 1964 (dovuto alla sociologa Ruth Glass), con già tutti gli elementi in fila per realizzare il pezzo poi appunto rivisto in tantissimi esemplari: si raccontava della trasformazione edilizia di quartieri popolari nati per supportare investimenti industriali o attività comunque bisognose di molta forza lavoro, si aggiungeva che con gli investimenti per modificare la struttura immobiliare arrivavano nuovi residenti con maggiore capacità di spesa, di conseguenza salivano i prezzi e i precedenti abitanti erano spinti o di fatto costretti a lasciare. Ci sono, ben squadernati, tutti i personaggi in commedia per recitare il processo al mercato, al capitalismo, alla borghesia arraffona. Ci sono la forza del denaro, l’imprenditoria famelica che lavora solo per i più forti, il proletariato urbano sbattuto via e marginalizzato. Con in più, nella fortuna letteraria della gentrificazione sulla stampa anglosassone, un repertorio di considerazioni legate al buon gusto (ovviamente danneggiato dallo sfoggio di lusso o dall’irritante imitazione popolaresca nei negozi affluenti che aprono nelle zone colonizzate), all’identità culturale e anche a particolari tecnico-logistici come le conseguenze sulla mobilità e sulla fornitura di servizi… In Italia si impadronisce di questa narrazione un sociologo dell’Università di Torino, Giovanni Semi, secondo il quale “le città sono una metafora urbana della violenza economica che regola il mondo post-fordista e le amministrazioni cittadine operano come soggetti economici, quindi rispondono a logiche di mercato e col mercato hanno più prossimità che coi cittadini”. E a proposito di estetica commerciale caratterizzante del processo Semi individua l’arrivo di “negozi vintage, birrerie artigianali e pasticcerie siciliane” come indizi della gentrificazione e anche come parte della degenerazione.
All’Esquilino il tasso di penetrazione dell’arte pasticcera siciliana è però pari a quello degli altri rioni e quartieri romani: abbastanza alto. Lo stesso si può dire per il fenomeno delle birrerie artigianali, mentre sui negozi vintage, tranne forse per il settore discografico, lo scettro va certamente ad altre zone della capitale. E anche i prezzi delle case all’Esquilino, tuttora mantenuti (fatte le eccezioni per i casi marginali in alto e in basso) tra i 4.000 e i 6.000 euro al metro quadro, testimoniano di un processo avviato, tentato, ma non realizzato. E poi niente abbandoni da parte dei vecchi residenti ma una stratificazione tra di loro e le due nuove categorie, la gentry intellettuale e i gli immigrati (prevalentemente dal variegato mondo asiatico).
E dalla stratificazione si traggono vantaggi opportunistici. Non si hanno i rialzi dei prezzi (che comunque danno guadagno, o almeno effetto ricchezza, solo ai primi entranti) ma si mantiene la possibilità di comprare o affittare tagli di appartamento anche ormai piuttosto rari, intorno ai 200 metri quadri, a prezzi competitivi rispetto alle zone borghesi e al centro storico. Mentre scendendo di dimensione non si verifica quell’aumento del prezzo al metro quadro che invece in altre zone fa sì che piccoli tagli vengano a raggiungere prezzi unitari del tutto sproporzionati. I prezzi dei prodotti di prima necessità sono al minimo cittadino, con il mercato esquilino, diventato un’impresa economica a sé stante dopo il trasferimento dal giardino di Piazza Vittorio allo spazio coperto di via Turati. Lì anche grazie all’attività di commercianti immigrati il conto della spesa scende del 30/40 per cento rispetto agli altri mercati urbani (non ditelo a Paolo Sorrentino ma c’è un principe romano che ci va ogni sabato per comprare il pesce spendendo di meno). I trasporti pubblici sono concentrati con la massima intensità, grazie alla vicinanza della stazione Termini che fa da snodo per metropolitana e linee di bus. Il melting pot dà spunti di contaminazione culturale di cui gli sceneggiatori di cinema e Tv, categoria, come si è detto, ben rappresentata in zona, hanno moltissimo approfittato.
E la gentrificazione quindi che fine fa? Proponiamo altre frontiere. Lasciate stare il Pigneto, anche lì non è andata. Ma si dovrebbero tenere d’occhio San Giovanni, soprattutto per le sue bellissime strade a ridosso delle mura aureliane, e con il gusto di prendere in contropiede la gloria locale (di Porta Metronia) Francesco Totti, riscoprendo i suoi luoghi originari. Potrebbe finalmente prendere il via l’Ostiense, dopo vari tentativi, anche se incombe sulla zona una certa movida stracciona che non aiuta. Segnali di cambiamento sia nella qualità commerciale, sia nell’intrattenimento e nell’offerta culturale si vedono nella zona tra piazza Fiume e viale Regina Margherita. Ma qualche carta potrebbe averla anche il quartiere Flaminio, con i suoi musei, il suo auditorium, e la sua ampia cubatura di origine militare e quindi riconvertibile. Al Flaminio può vedersi anche l’unico completo,seppur piccolo modello di gentrificazione alla romana, nel complesso detto villa Riccio (in realtà una cooperativa di case popolari anni ‘20). Per quella strada la successione di case a un piano una dopo l’altra e tutte con gli stessi motivi architettonici ha suscitato la definizione sinteticamente perfetta, che qui diventa slogan aspirazionale e riassunto malinconico di questo pezzo: Piccola Londra.