Scalfari e il Papa
Gran interrogarsi tra monsignori intorno alle conversazioni di Francesco con il fondatore di Rep.
Davanti al negozio bengalese di via di Porta Angelica l’altro giorno era un gran ridere e interrogarsi tra monsignori sulla surreale conversazione tra il Santo Padre Francesco e l’augusto interlocutore prediletto, Eugenio Scalfari. “Mò siamo a che Gesù è diventato Dio solo quando è morto”, diceva un giovane in clergy con sobrio occhiale da sole Ray-Ban, commentando il dialogo tra i due. E l’altro, meno giovane e con trolley, ridacchiava profetizzando l’Apocalisse e forse, chissà, pure le paganissime Valchirie arrivare sul cupolone di San Pietro. Il mio cicerone, un vescovo vestito non da vescovo tanto da sembrare un turista bielorusso a Fontana di Trevi, mi diceva che il problema di questi romani (dove per romani si intende la variegata galassia dei nostalgici chierici del tempo che fu) è che non capiscono che la reale rivoluzione portata da Bergoglio è proprio questa, e cioè bere succhi di frutta non troppo freddi – il frigobar nella suite papale è ben fornita, non si sa però se ci sono ancora le Kinder Delice ivi riposte all’inizio del pontificato – con miscredenti e mangiapreti. Qualcuno dice perché l’istinto predatorio gesuita fa sì che si cerchi di convertire l’anima dell’ateo prima che sia troppo tardi, altri più modestamente sostengono che semplicemente al Papa attuale piacciono i tipi come Scalfari, senza troppi complessi da sacrestia, senza quell’aria da cattolicone che tutto dice di sapere di dottrina e morale e pastorale. Meglio ateo, insomma, che cattolico adulto. “Non si sa però cosa sia peggio”, aggiungeva serissimo il vescovo mio amico.