Atac e le sue sorelle: latte, farmacie, cavalli. Ecco la piovra
La mappa del “Campidoglio Holding”. Il groviglio di quote e partecipazioni di Roma Capitale, della Regione Lazio e della Provincia di Roma
Atac e le sue innumerevole sorelle. La proposta referendaria di Radicali Italiani per la messa a gara pubblica del servizio dei trasporti e, più in generale, il rischio ormai concreto di un fallimento dell’azienda detenuta al 100 per cento dal comune, hanno riacceso i riflettori sulla tentacolare “Campidoglio Holding”. Qualche tempo fa gli economisti de lavoce.info Roberto Perotti e Filippo Teoldi elaborarono un grafico (che ripubblichiamo qui) per rappresentare il groviglio di quote e partecipazioni di Roma Capitale, della Regione Lazio e della Provincia di Roma. L’ampio e variegato insieme dei settori interessati dalla presenza e dall’influenza della politica locale, e insieme l’inefficienza con cui decine di società sono gestite, spiega meglio di tante parole il livello di patologica dipendenza dell’economia romana dagli apparati pubblici e parapubblici. Dal latte all’esposizione di cavalli, passando per scatole vuote di progetti mai realizzati (come “Aquadrome”, che doveva sostituire il vecchio velodromo olimpico con una avveniristica “città dell’acqua e del benessere”).
In alcuni casi si tocca l’assurdo: quanti sanno, ad esempio, che il comune è proprietario del 75 per cento di una compagnia assicurativa, la Assicurazioni di Roma? Tra premi esorbitanti, sinistri liquidati con generosità e consulenze facili, Adir alimenta un business multimilionario per avvocati e periti, economicamente ingiustificato. Ignazio Marino aveva provato a liquidare la compagnia, facendo assorbire i dipendenti da altri “rami” della holding capitolina, ma tra contratti in essere, contenziosi aperta ed esplicita opposizione del Pd non se ne fece nulla. Con la giunta Raggi, poi, l’ipotesi della liquidazione dell’Adir è tramontata, anche perché fin dal 2015 il blog di Grillo aveva preso una posizione netta: “AdiR assicura il patrimonio immobiliare di Roma, per 3,5 milioni di euro, accettando di non sapere qual è la sua consistenza. Nessun’altra assicurazione accetterebbe una simile situazione e Roma si ritroverebbe con un patrimonio scoperto da assicurazione”. Ancora: “Atac riesce ad assicurare i propri mezzi per il trasporto pubblico locale con AdiR a una cifra molto inferiore di quella che Roma TPL riesce ad ottenere ricorrendo al libero mercato”. Nessuno si chiede – tra autori e lettori militanti del blog – se assicurare un patrimonio al buio non sia un rischio eccessivo che un giorno potrebbe compromettere la sopravvivenza stessa della compagnia assicurativa. Dalle assicurazioni si passa con un volo pindarico allo spettacolo: il comune di Roma detiene il 100 per cento di una società che si occupa di spettacoli e cultura (Zetema). Musei, eventi, iniziative di promozione a cura di oltre 861 dipendenti, che svolgono un’attività che potrebbe essere attribuita a società e fondazioni private, in concorrenza tra loro e magari capaci di attrarre investimenti freschi nella capitale e di rendere competitivi i musei romani.
Tra le questioni sollevate dai Radicali, oltre alla vicenda Atac, c’è quella delle 43 farmacie comunali gestite sotto l’ombrello di Farmacap: in più di una occasione il comune ha coperto buchi e falle finanziarie, dovute a scelte dubbie e affitti stratosferici (fece scandalo un canone di locazione di 172.000 euro in zona Laurentina, un prezzo superiore a quelli del centro).
Nella caldissima estate del 2017, i romani hanno scoperto letteralmente che il sistema “fa acqua da tutte le parti”, a cominciare dalla madre di tutte le partecipate: Acea. Con perdite nella rete idrica superiori al 40 per cento, uno si aspetterebbe che il comune decidesse di reinvestire gli utili dell’Acea (400 milioni nel 2016) nella manutenzione e nella modernizzazione delle tubature. Il Campidoglio detiene il 51 per cento della multiutility, ma non può permettersi una scelta del genere: quei dividendi servono per coprire le falle annuali del bilancio comunale, già disastrato. E dunque, paradosso dei paradossi, per una logica di breve periodo al comune “conviene” sprecare l’acqua anziché riparare gli acquedotti e realizzare gli impianti di depurazione. Se si riparassero i tubi, d’altronde, come si pagherebbero gli stipendi del personale? Con 60mila dipendenti (sommando i 25mila diretti e circa 35mila delle municipalizzate), il Comune è un pachiderma che sembra operare per garantire la propria sopravvivenza, più che per erogare servizi.