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Sorpresa. A Roma il settore privato cresce e tira forte

Gianluca De Rosa

Muore asfissiata l’economia del sussidio parastatale, ma la Capitale fa il botto nell’export. S’intravede un nuovo modello?

Spesa pubblica, costruzioni e consumi. Era questa la ricetta che fino al 2008 ha fatto crescere l’economia romana. Poi, appena eletto Gianni Alemanno sindaco, è arrivata la botta: Roma ha collezionato un debito enorme e per salvarla dal default è necessario l’intervento dello stato. Il debito storico viene dunque commissariato, lasciando che a pagare le spese pazze del passato sia in parte la fiscalità generale e in parte i cittadini romani costretti a sborsare le più salate imposte comunali del paese. Nel 2011 poi, con la nuova e tremenda crisi dei debiti sovrani, i trasferimenti ai comuni subiscono un forte ridimensionamento. Risultato: pochissimi margini di manovra di bilancio, che hanno portato il comune ad arrancare. Intanto la crisi ha colpito anche i redditi delle famiglie e i consumi sono drasticamente calati, mentre il turismo di massa ha cambiato i connotati del commercio nel centro città. Come se non bastasse, l’intero settore delle costruzioni è andato in crisi: prezzi a picco e centinaia di appartamenti invenduti. E insomma la crisi ha strozzato Roma ben più di molte altre città italiane, uccidendo un modello di economia distributiva, parastatale, basato di fatto su rendite di posizione. E oggi è arrivato il momento della resa.

 

Ma la verità, probabilmente, è che queste non sono tutte cattive notizie. La crisi del modello distributivo lascia infatti spazio all’impresa privata, e a un tessuto economico sano, che già dà evidenti segnali di ripresa. Il tasso di occupazione nel 2016, per esempio, ha raggiunto il 62,6 per cento, lo stesso dato del 2008, periodo pre-crisi. E gli occupati sono addirittura aumentati (quasi un milione e ottocentomila, ovvero 250.000 in più del 2008), così come il numero delle imprese registrate alla Camera di Commercio. Il valore aggiunto certo, stenta a crescere, fermo a 134 miliardi e 609 milioni di euro (il dato è del 2014), 2 miliardi e mezzo sotto a quello di nove anni fa. “Guardando i dati grezzi – spiega Catello Caiazzo, consulente economico della presidenza della Regione Lazio – sembrerebbe che a Roma abbiamo avuto un appiattimento verso un’economia della necessità: a più imprese e più lavoratori corrisponde un valore aggiunto più basso. Da un lato è il segno che i romani hanno reagito alla crisi mettendosi in proprio, ma dall’altro significa che queste attività sono a basso valore aggiunto, e che la produttività del lavoro è diminuita molto”. Ma è un inizio. Ed è il segnale che avanza un campo economico sano della città, non quello del sussidio di stato, ma quello dell’impresa privata. Che rischia.

E infatti il dato positivo è arrivato proprio dalle esportazioni. Un’indagine della Regione, che ha cumulato i dati dei primi due trimestri dell’Istat, segnala come il Lazio ha esportato merci per 11,2 miliardi di euro, un valore in crescita di 1,5 miliardi, +15,5 per cento, rispetto al dato dei primi sei mesi del 2016, contro l’8 per cento della media nazionale e con un aumento rispetto al 2013 addirittura del 22,3 per cento. I dati spiegano che la crescita della regione è stata letteralmente trascinata dall’export di mezzi di trasporto, che ha raggiunto un valore di 2 miliardi di euro con una variazione di +85,4 per cento rispetto al 2016, da imputare in gran parte all’impianto Fiat-Chrysler di Cassino, dunque non in provincia di Roma. A fare poi i grandi numeri in valore assoluto sono anche gli articoli farmaceutici, oltre 4 miliardi di euro, pari al 35,7 per cento delle esportazioni complessive della regione nel I semestre 2017, (+2 per cento in valore export rispetto al primo semestre 2016). E anche se solo 252 milioni sono quelle imputabili a Roma e provincia, i numeri parlano chiaro anche per la capitale: la crescita è stata del 166 per cento sul 2016. E la crescita dell’export, a Roma e provincia, è stata del 11 per cento. I settori che registrano le performance migliori, oltre al farmaceutico, sono la chimica di base, i metalli preziosi, con valori assoluti nell’ordine delle decine di milioni di euro, mentre tra settori che partono da valori più bassi, i risultati li fanno i tubi in acciaio, gli altri lavorati dell’acciaio, i supporti ottici e magnetici e i prodotti televisivi e cinematografici. E’ vero che nessuno di questi settori registra valori assoluti paragonabili a quelli degli autoveicoli e dei farmaci a Frosinone e Latina, ma comunque, sommando tutto, l’export romano vale pur sempre il 40,5 per cento di quello laziale. Tradotto: 4.574 miliardi degli 11 totali in regione.

  

Soddisfazione, ma senza illusioni, certo. A far sperare che nella capitale possa finalmente nascere una nuova e dinamica economia però ci sono anche altri dati. Il numero delle start up innovative ad esempio, che fa di Roma la seconda città italiana per numero di imprese di questo tipo. Sono 625 (l’8,45 per cento di quelle di tutto il paese), ovviamente anni luce sotto Milano, che ci doppia con 1.160, ma comunque la crescita rispetto al numero di aziende innovative presenti lo scorso anno è del 20 per cento. Stesso discorso che vale per il cosiddetto terziario avanzato che registra un’incidenza dell’occupazione superiore alla media nazionale (22,3 per cento del complesso degli occupati contro il 14,8 per cento). “C’è un settore dell’innovazione, delle start up molto veloce che funziona e sta migliorando e c’è un terziario avanzato molto strutturato e molto forte, ma sono nicchie che ancora non riescono a trainare tutto il resto”, commenta Caiazzo.

  

Intanto, come spiega il presidente di Unindustria Lazio, Filippo Tortoriello: “A breve aprirà il digital innovation hub”. Si tratta dei distretti tecnologici per aiutare le piccole e medie imprese ad adeguarsi alla nuova rivoluzione industriale previsti dal piano Calenda del 2016. “L’obiettivo di fondo – dice Tortoriello – è da una parte formativo e dall’altra di stimolo all’imprenditoria”. Gli altri segnali positivi, secondo Tortoriello, vengono poi dalle infrastrutture: “L’aereoporto di Roma rappresenta un’eccellenza, anche quest’anno è stato riconfermato come primo aeroporto di Europa per qualità percepita dai passeggeri secondo la classifica ufficiale dell’Airport Council International di Europa. E ha registrato ben 20 milioni di passeggeri in più”, spiega il presidente di Unindustria. “Proprio con Adr, e grazie al lavoro della struttura operativa di Uninustria, la scorsa settimana il viceministro Riccardo Nencini ha presentato il piano integrato di sviluppo sostenibile delle infrastrutture del quadrante Nord Ovest dell’area romana. L’aspetto infrastrutturale è determinante per lo sviluppo economico”, conclude Tortoriello. Il piano, spiega chi se ne occupa, ha lo scopo di dare una visione unitaria a una serie di opere infrastrutturali pubbliche o private per collegare meglio l’aeroporto con il litorale e Roma (aerei, navi e treni). E insomma, come dice Caiazzo, riferendosi alla nostra città: “E’ un po’ come la teoria del calabrone. Non dovrebbe poter volare, ma lo fa”. Così, Roma, il capoluogo con le tasse più alte di Italia, con un comune sull’orlo del default e con un sistema di trasporti totalmente inefficiente, alla fine, non solo sta in piedi, ma anzi adesso offre pure la timida visione di un nuovo modello economico finora sconosciuto a queste latitudini parastatali.

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