Gli stracci cinesi di Papa Francesco
Il verbale della conversazione del Pontefice intorno ai rapporti con i comunisti cinesi allarma la Segeteria di stato
Dicono che si è sentito scaraventare di tutto, in Segreteria di stato, quando lunedì mattina è comparso sugli schermi dei computer il verbale della conversazione tra il Papa e il cardinale Joseph Zen Ze-kiun sullo stato della trattativa tra la Santa Sede e il Partito comunista cinese. Secondo il porporato, Bergoglio avrebbe infatti fatto capire di non essere d’accordo con quanto stanno facendo i suoi sottoposti romani, che lui non vuole creare martiri eccetera. Comprensibile lo sgomento nell’entourage di Pietro Parolin, il paziente segretario di stato che alla questione cinese lavora da anni e anni. “Hanno montato un caso per nulla”, dice il monsignore di curia dubbioso su quello che chiama “appeasement di Roma ai comunisti cinesi”: “Che Zen fosse da sempre ostile a ogni negoziato lo sapevano anche le statue del Colonnato del Bernini. Il Papa aveva bisogno di chiamarlo a Santa Marta per sentirselo dire? E poi, quali risultati ha ottenuto questo negoziato? Nessuno”. Uno sì, ribatto: “Xi Jinping ha inviato qualche telegramma al Papa”. L’interlocutore mi guarda con pietà. A ogni modo la vicenda cinese ha messo in ombra l’altro caso del giorno, e cioè la nomina di un delegato speciale spedito in Cile a intervistare tutti quelli che hanno qualcosa da dire sul celeberrimo Juan Barros, il vescovo accusato di aver coperto atti osceni su minori negli anni in cui era adepto d’un santone che il Vaticano ha messo a risposo. “Inversione a U rispetto a quanto dichiarato solo una settimana fa”, nota il monsignore, che aggiunge serafico bevendo una bottiglietta di Chinotto senza l’ausilio della cannuccia: “E poi dicono che la confusione la fanno i giornalisti”.