Dopo Muti. L'Opera di Roma sembra viva (inspiegabilmente)

Michele Masneri

Com’è tutto cambiato, davanti e dietro le quinte: solo qualche tempo fa si era nella succursale di un Atac musicale

Tutti i teatri d’Opera d’Italia sono belli, tranne quello di Roma, si diceva un tempo. Ci dev’essere come al solito di mezzo la nemesi e l’ombra e altre categorie psicoanalitiche se in un paese fondato non sul lavoro ma sul melodramma, qualunque cittadina di provincia ospita deliziosi teatrini mentre la Capitale vantava fino a qualche tempo fa un poco frequentato mammozzone lapideo accanto alla stazione – architettura fascia ma non solenne né drammatica, fascia ma depressa, da palazzo postale imitazione di (seppur di Piacentini). Le aiuole eran zozze, con infestanti che se la facevano con le cartacce, e l’architettura rimaneva misterica (dev’essere l’unico teatro del mondo in cui si scende una scala per accedervi, invece che salirla).

 

Il contenitore rimane quello lì, eppure, scesa la scaletta, oggi qualcosa accade. Lunedì sera, per esempio, tutto un pienone e un viavai: per il film del regista Tom Volf (da non confondere con lo scrittore del Radical chic) dedicato a Maria Callas, e nello stesso tempo per la presentazione del volume delizioso di Alberto Mattioli, “Meno grigi, più verdi”, presentato da Roberto D’Agostino, Giancarlo De Cataldo, insieme al sovrintendente Carlo Fuortes e al direttore artistico Alessio Vlad (che sembra George Clooney). Si discute del libro (un Verdi pop spiegato alle masse), si fa la coda per il film, si tenta di prenotare un ultimo biglietto per il “distico”, cioè la combo verista Pagliacci + Cavalleria rusticana, Cav and Pag, uniti e mixati e aggiunti di trip contemporanei (c’è il medesimo regista che interviene in scena, e fa cose). Tutto esaurito, magari non si è alla Scala (paragone impossibile) e gli interni piacentiniani rifatti due volte, nei Trenta e nei Sessanta, sembrano una Farnesina di qualche developing country; non ci sono i grandi ristoranti davanti e sopra, niente Marchesino ma invece una “Matriciana” e un’enoteca famosa perché fornisce bottiglioni con le effigie del Duce. E però, aria friccicarella di rilevanza culturale. C’è perfino lo scandalo (che nelle arti è sempre il segno del successo): il medesimo Delbono infatti è stato fischiato e contestato dagli spettatori (dunque essi vivono!) poiché nella sua performance non convenzionale getta fiori sul pubblico, con gioco molto brechtiano (ma uno spettatore ha urlato: “la smetta di gettarmi fiori in testa!”). Delbono non ha smesso, è anzi soddisfattissimo (chi volesse fiori in testa rimarrà deluso, le ultime recite sono tutte esaurite). Il sovrintendente Fuortes, che è stato Ad dell’auditorium e commissario straordinario al Petruzzelli di Bari, poi all' Arena di Verona, dunque uno in grado di gestire probabilmente la crisi siriana, porta invece dati biometrici incoraggianti: 40 per cento del pubblico recente non era mai stato all’Opera, sessanta per cento son giovani. Dunque svecchiamento di questa un tempo “Opera de la gare”, per citare l’Arbasino di “Fratelli d’Italia”, che nei Sessanta registrava: “Dame che si assestano le mutande e le tette, fondali di Mefistofele sul Tevere, nani comprimari che fanno i gladiatori”, “pubblico tutto falpalà sporco di sudore e tacchettini a spillo, gioielli da tabaccaio, tiare da chiosco, belletti da treno, quelle tinture per capelli nere nere, compatte, opache”, “ordinarie in raso celeste mariano unto, che espongono l’ascella col pelo lungo, mutilati, onorificenze”.

 

Qui, com’è tutto cambiato, davanti e dietro le quinte: solo qualche tempo fa si era nella succursale di un Atac musicale: sindacati dei trombonisti che tenevano in ostaggio il teatro, indennità di frac (nel caso fossero costretti a indossarlo), Muti che fuggiva da Roma, dalle rappresentazioni senza orchestra per grane sindacali, dagli agguati in camerino di sindacalisti non melomani. Poi son arrivate le “Valentino’s Traviata”, le regie di Damiano Michieletto, e oggi questo dittico, e i fiori in testa.

Di più su questi argomenti: