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Virginia Raggi e l'effetto domino dell'esecutivo giallo-verde

Marianna Rizzini

L’altalena “governo sì-governo no” getta nel panico anche il sindaco (questione di “mobilia”)

Roma. Ci sono occhi che, più degli altri, osservano con preoccupazione l’altalena pazzotica di questi giorni – occhi che, dopo il 4 marzo, avevano l’espressione soddisfatta di chi può dire “gatto” senza averlo nel sacco, ma che ora riflettono lo smarrimento di chi è finito per domandarsi “che fine faremo noi?” in caso di non-partenza del governo giallo-verde (o di partenza azzoppata del medesimo). E insomma da giorni in Campidoglio, e presso i gruppi a Cinque stelle romani, si trepida attorno alle sorti della trattativa Di Maio-Salvini non soltanto per ragioni di idealistica appartenenza politica. E’ anche questione di mobilia: i due miliardi di euro (in tre anni) che la giunta Raggi sentiva già suoi, in quanto fatti sognare al sindaco di Roma dal quasi nato governo M5s-Lega. Motivo per cui il sindaco, due giorni fa, davanti ai parlamentari a Cinque stelle eletti a Roma, non ha esitato a mostrare tutta l’ansia del futuro globalmente incerto: “Noi abbiamo fatto il possibile. Abbiamo ridotto il nostro passivo di 200 milioni senza fare altri debiti. Roma ha il ruolo di capitale soltanto sulla carta e non ha poteri specifici come accade all’estero”. E ancora: “Finora Roma non ha avuto un governo amico. Con Di Maio a Palazzo Chigi ne avrebbero beneficiato la città e tutti i cittadini. Spero si torni al più presto al voto. Nel frattempo, però, le leggi per salvare la città già ci sono. Ma mancano 50 decreti attuativi”.

   

Non è questua, forse è moral suasion, ma esercitata al cospetto di color che sono sospesi, i neoeletti che ancora non sanno se mangeranno il cocomero, ché il panettone pare un miraggio. Sullo sfondo resta il problema cosiddetto di “Roma capitale”. E’ ancora fresca, infatti, la memoria del momento speranzoso in cui Luigi Di Maio, candidato premier appena uscito vittorioso dalle urne, faceva visita al sindaco di Roma e ai consiglieri di maggioranza in Campidoglio, su richiesta della stessa Raggi, e proprio per parlare dell’approvazione dei decreti attuativi della legge che prevede più autonomia per la città (la normativa è ferma dal 2010, e prevede che Roma possa avere gli stessi “poteri” di Londra, Parigi o Shangai). Era il 30 marzo, e ancora nessuno, tra i Cinque stelle, avrebbe potuto immaginare che cosa sarebbe successo (o non successo). Di Maio, ancora sicuro del futuro roseo, in vista della convocazione al Quirinale, aveva esortato il sindaco ad “andare avanti” con fare paterno. E Raggi, su Twitter, aveva subito scritto un post di richiesta-aiuto: “Le nostre città hanno bisogno di più risorse, più autonomia e più strumenti per migliorare la vita dei cittadini. Con Di Maio abbiamo parlato di questo tema, dell’esperienza di governo qui a Roma e dello sviluppo della capitale e quindi di tutto il paese”. (Ultime parole famose).

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.