Torino riapre tra i Cinque stelle la questione Olimpiadi a Roma
Il fallimento della candidatura di Appendino a Giochi invernali diventa un elemento di soddisfazione in Campidoglio
Roma. A Roma non si poteva, si disse, perché sarebbe stato “da irresponsabili” fare altri debiti: “Stiamo ancora pagando quelli del 1960”, dichiarava Virginia Raggi nel settembre del 2016. Ma quali giochi del 2024, ma quale rilancio dell’economia e dell’immagine internazionale di una capitale ormai quasi sudamericana. “A noi piace lo sport e piacciono le Olimpiadi. Ma diciamo no alle Olimpiadi del mattone e delle grandi lobby”. E vabbè.
A Torino, invece – dove i costi erano assai più contenuti, dove si era perfino assoldato un architetto amico del Beppe per mettere a punto i “primi giochi a impatto zero”, dove si sarebbero potute riutilizzare molte delle strutture dell’edizione del 2006 – a Torino invece pure. Niente Olimpiadi invernali nel 2026. Il che dimostra come in effetti i motivi contabili, la presunta responsabilità di chi nei comuni si erge a parsimonioso difensore dei conti (salvo poi, incoerenza somma, vagheggiare manovre economiche dissennate quando è al governo centrale), c’entra assai poco, col feticismo grillino del No. E anzi, la vicenda sabauda illumina retrospettivamente, ora, lo sdegnoso rifiuto di Virginia Raggi di due anni fa: il punto è evidentemente l’eredità gravosa di una ideologia, quella fondativa del M5s, che eleva l’oltranzismo antisviluppista a valore imprescindibile, che vede in ogni grande evento una minaccia da respingere, in ogni appalto una truffa da scongiurare.
E però è con un vago, sottaciuto compiacimento che ora i grillini capitolini guardano alla figuraccia della Appendino. Come a dire che in fondo anche la bocconiana, “quella brava”, è caduta sulla stessa pietra d’inciampo. Vero, la Raggi non volle neppure prenderla in considerazione l’ipotesi olimpica. “Semplicemente, rinunciò a fare il sindaco”, dice ora Paolo Berdini, l’ex assessore all’Urbanistica che ricorda dei colloqui concitati dell’epoca: “Le proposi la bozza di un progetto per fare dei Giochi un’occasione di manutenzione diffusa: vari impianti distribuiti sul territorio, ristrutturazione delle vecchie strutture e delle strade, tante piccole opere”. Si disse un “no aprioristico”, spiega Berdini. “Era evidente che non fosse lei a guidare la macchina”. E così si rifiutarono cinque miliardi di finanziamento, più del triplo di ciò che è bastato a Milano per rinnovarsi con l’Expo. “Non erano maturi, allora, i Cinque stelle”, ammette Berdini.
Ma forse non era solo questione d’impreparazione. “C’è che quando ipotizzi dei cambi di direzione troppo bruschi, rischi di perdere identità, e dunque compattezza”, dice oggi chi nella giunta capitolina c’è rimasto. E quindi “meglio fermarsi prima ancora di cominciare: in fondo, su questo Virginia fu lungimirante”. Come a dire, insomma, che per certi versi l’errore grave è stato quello della Appendino: avere creduto che il M5s fosse pronto a sopportare il peso della svolta. Paradossalmente il gruppo consiliare della Raggi uscì rafforzato da quella vicenda: confortato dalla coerenza di una sindaca che non cedeva al richiamo delle sirene del Coni. A Torino, che pure è grande quanto un paio di municipi romani, i consiglieri della Sala Rossa sono stati trascinati in una discussione logorante, e infatti ora sospirano di rilassatezza: “Se non altro, abbiamo chiuso questa partita”.
E certo la Raggi non gioisce, di fronte alla disfatta dell’amica Chiara. Ma pure, forse, dall’insuccesso della collega spesso additata come la controfigura da imitare, trae un che d’involontaria soddisfazione. Quasi invidiosa di ciò che alla Appendino era stato concesso di chiedere – un’Olimpiade “green e low cost” – e a lei no, la scorsa settimana aveva dichiarato: “Se il Cio deciderà di cambiare modello, molte città tra cui Roma potranno decidere di ospitare un evento così importante”. Serve però un cambio di prospettiva: “Sempre più città rinunciano e altre si consorziano per riuscire a sostenere l’impegno olimpico. E’ evidente che il modello che c’era prima non può più reggere dal punto di vista economico e di quello dell’impatto sulle città”. Discorso che sembrerebbe quasi credibile, se non fosse che a quel “nuovo modello”, a quell’idea di “città consorziate”, il suo partito, a Torino, ha appena detto No.