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Tutti i dubbi sulla regolarità del voto su Atac. Pronti i ricorsi al Tar

Gianluca Roselli

"Non c’è quorum nel referendum costituzionale, figuriamoci nel voto consultivo di una città", accusa Magi

Roma. Diversi sono i dubbi di carattere legale che riguardano il referendum tenutosi domenica scorsa sulla liberalizzazione del trasporto pubblico. Dubbi che mettono seriamente in dubbio la validità della consultazione. Come si è visto, il referendum è fallito per mancato raggiungimento del quorum, fissato al 33,3 per cento, cioè un terzo della popolazione residente, ovvero 788.423 mila romani su circa 2.367.638 aventi diritti al voto. Anche sul numero degli aventi diritto ci sono dubbi e polemiche, ma ci arriveremo dopo. Dunque, ha votato solo il 16,3 per cento, pari a 386.900 persone, di cui il 75 per cento per il Sì. Quorum non raggiunto e referendum sull’Atac fallito. Riccardo Magi, di Radicali italiani (promotori dei quesiti), annuncia ricorso al Tar sulla questione quorum: a suo dire, l’asticella non doveva esserci. E’ così? Il Comune ha modificato il proprio statuto eliminando il quorum il 30 gennaio 2018, lo stesso giorno in cui è stata emanata l’ordinanza per indire il referendum. Che in prima istanza si sarebbe dovuto tenere a metà giugno, poi e stata decisa una seconda data: domenica 11 novembre 2018. “Il referendum si è svolto dopo l’abolizione del quorum, ma il Campidoglio ha fatto votare col vecchio sistema. Si tratta di una plateale violazione delle regole: il quorum non ci doveva essere. Per questo impugneremo la proclamazione del risultato davanti al Tar”, afferma Magi. Secondo il Campidoglio, invece, l’asticella era d’obbligo perché le firme (33 mila) sono state depositate l’11 agosto 2017, quando il quorum era previsto. A dirimere la questione ora sarà il Tar del Lazio. “Al di là della disfida sulle date, la natura consultiva del referendum – il cui risultato non ha effetti vincolanti per l’amministrazione – rende irragionevole la previsione di un quorum. Non c’è quorum nel referendum costituzionale, figuriamoci nel voto consultivo di una città. E poi perché fissare la quota al 33 per cento? Su che basi? Perché non il 20 o il 40?”, osserva il professor Tommaso Edoardo Frosini, ordinario di diritto pubblico comparato e diritto costituzionale all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

 

Altra questione è il numero degli aventi diritto. Il Campidoglio aveva ampliato il numero anche ai cosiddetti “fuori sede”: studenti non residenti iscritti a università romane e lavoratori con regolare contratto di lavoro nella Capitale. Per votare avrebbero dovuto iscriversi a una sorta di lista elettorale speciale, entro però il 31 dicembre 2017. Ovvero a referendum non ancora fissato. E infatti in quel registro si sono iscritte solo due persone, contro una platea potenziale di mezzo milione. “Studenti e lavoratori non romani ma che vivono in città sono coloro che più utilizzano i mezzi pubblici. Bisognava fissare un’altra scadenza. La loro voce andava ascoltata, invece è stato alienato un loro diritto”, accusa Riccardo Magi.

 

Diverse persone poi, secondo la denuncia dei Radicali italiani, non hanno potuto votare perché sprovviste della tessera elettorale. Che però, secondo precisa ordinanza del Comune, non era necessaria: si poteva votare esibendo solo il documento d’identità. La tessera elettorale era facoltativa: a chi l’aveva, infatti, non è stata timbrata. Alla fine, però, il numero di chi non ha potuto votare per questo motivo sembra esiguo. La questione, però, attiene a un altro problema: la pubblicità del referendum. Ovvero rendere noto ai cittadini la data del voto, il tema dei quesiti e le regole per votare. La giunta Raggi, com’è noto, era contraria alla liberalizzazione e ha boicottato la consultazione fin quasi all’ostruzionismo. “Dal momento in cui vengono depositate le firme, un referendum smette di essere un tema di parte e diventa istituzionale, con tutto ciò che ne consegue, compresa la corretta informazione ai cittadini”, dice Magi. E’ stato fatto? Manifesti elettorali in città se ne sono visti davvero pochi. Mentre qualche spot elettorale è andato in onda su Raitre nell’orario del Tgr Lazio, ma solo per l’insistenza dei Radicali. Qui, però, non si può parlare di violazione di legge, anche se la consuetudine politica vuole che si offrano ai cittadini tutte le informazioni possibili. Sorvoliamo, poi, sul fatto che Virginia Raggi non ne abbia mai parlato. Ma c’è di più: la sindaca ha votato nel tardo pomeriggio di domenica e alcune fonti sostengono che dal suo seggio, in zona Ottavia, sarebbe stata allontanata una giornalista de La7 che voleva riprenderla al momento del voto. Insomma, non si voleva far circolare nessuna immagine mentre infilava la scheda nell’urna.

 

Infine, la questione dei 700 dipendenti Atac tra gli scrutatori. Il numero poi è stato inferiore, ma anche qui non sembrano esserci irregolarità. “Non si può impedire a nessun cittadino di essere iscritto nelle liste da dove poi vengono estratti gli scrutatori”, sostiene il professor Frosini. “Se poi ci sono state irregolarità, inquinamento del voto o manomissione delle schede, ne risponde penalmente il singolo scrutatore, sia esso dell’Atac o meno”.

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