Tiburtina senza ritorno. Reportage dai luoghi degli sgomberi
I migranti sono per strada. “Così Salvini crea le banlieue”, dice Lombardi (M5s)
Roma. L’aiuola che abbellisce la discesa di via dello Scalo tiburtino testimonia di uno zelo recente: le piantine appena interrate, i tubi ancora puliti, nuovissimi, per l’impianto di gocciolamento. Accenno di decoro un po’ posticcio, però: perché pochi metri più in là, sotto le pensiline degli autobus, davanti all’entrata posteriore della stazione, restano ancora, sempre nuove e sempre logore, le coperte ammonticchiate, le buste rigonfie di indumenti luridi. Un uomo, sotto gli occhi indifferenti, forse ormai assuefatti, di un autista dell’Atac, accende un fornelletto a gas da bivacco e ci mette sopra un tegame. Non vuole parlare, però. E insieme a lui si ritrae anche un suo amico, che appena vede avvicinarsi troppo una presenza estranea si ritrae nella sua tenda da campeggio, montata sul marciapiede, e chiude la zip. “Newspaper?”, ci chiede allora un terzo ragazzo. Si, giornalista. “I’m moving”, dice spavaldo e loquace, con un sorriso amichevole. Ha ventitré anni, ci spiega, viene dal Mali. Si trasferisce, dunque. Un dormitorio? “No, Termini”. Gli hanno riferito che lì si sta più comodi, a quanto pare, e tanto basta.
Mohamed invece ha ventotto anni, viene dalla Tunisia come la maggior parte delle persone qui – quasi tutti uomini sotto i trenta, “ma c’è anche una donna con due bimbi”, ci verrà poi spiegato – e in Italia è arrivato, via mare, otto mesi fa. Parla quasi solo in francese. Dopo una breve permanenza in una comunità in Sicilia, ha ripreso il suo viaggio verso il Nord. “Francia”, è la sua meta, anche se ha fatto comunque richiesta di asilo politico in Italia. A Roma è venuto perché sapeva che c’era il Baobab, ma quando è sceso da un treno a Tiburtina, a metà novembre, il centro per rifugiati di piazzale Maslax era stato smantellato da un paio di giorni. “Beffa, sì”, ripete, senza però dare l’impressione di capire. E così anche lui ha finito con l’unirsi alla comitiva di reduci che ha eletto questo slargo intitolato a Giovanni Spadolini come nuovo accampamento di riferimento. Erano quasi duecento, quelli ospitati dal Baobab. “Per 165 è stata trovata una sistemazione dignitosa, nelle strutture del Comune, nel giro di poche o pochi giorni”, spiegano dallo staff dell’assessore al Sociale, Laura Baldassarre. Ne sono rimasti fuori una trentina. Poi sono arrivati anche una manciata di persone sfrattate dalla fabbrica fatiscente della ex Penicillina, che da qui dista meno di sei chilometri.
“E ora, forse, arriverà anche qualcuno dal Cara di Castelnuovo di Porto, appena inspiegabilmente smantellato”, ci dice Erica, una ragazza che dal Pigneto ha portato, insieme a due amiche molto più adulte di lei, delle pentole piene di minestra e purea di patate. “L’estate scorsa, subito dopo lo sblocco dello stallo sulla Diciotti, d’improvviso dall’associazione ci chiesero di raddoppiare la quantità di cibo da preparare. Solo dopo capimmo perché, quando leggemmo della fuga di una cinquantina dei rifugiati da Rocca di Papa”. Stavolta, a quanto pare, non c’è stata alcuna segnalazione, “ma si resta comunque all’erta”. Paola, al suo fianco, insorge: “Che senso ha sfrattare la gente se non si sa dove sistemarla? L’unica logica che ci vedo è una logica cinica”.
E a illustrarla, a modo suo, ci pensa Roberta Lombardi, che al telefono ci dice che “sgomberare non basta”. Quello che invece serve, secondo la capogruppo M5s in regione Lazio è “pianificare già da prima dove saranno accolte queste persone, perché lasciarli in strada significa trasformare le nostre periferie in banlieue parigine. Quello a cui stiamo assistendo è un esercizio di forza senza una vera pianificazione a monte del problema. Un modus operandi buono per la ricerca di un consenso immediato, ma che di fatto non porta maggiore sicurezza sociale”. Maurizio Politi, il leghista dell’Aula Giulio Cesare, ammette il pericolo ma non retrocede: “Agire con mano ferma – dichiara al Foglio – comporta senz’altro dei rischi, ma il peggiore dei rischi possibili, in questo caso, è continuare a tollerare illegalità e buonismo. Chi non ha diritto, va cacciato fuori dall’Italia”, insiste, forse ignorando che tra le cinquanta persone che gravitano intorno a piazzale Spadolini ci sono anche dieci ex ospiti del Baobab a cui è stato notificato un decreto di espulsione.
Ma in generale, le liti della politica cadono un po’ inconsistenti tra queste pensiline, insieme alla pioggia che infradicia i cartoni usati come giacigli, mentre una ventina di ragazzi, all’annuncio del pranzo, improvvisamente si materializzano. “La sera sono più del doppio”, ci spiegano le volontarie. “Di giorno vanno in giro tra Portonaccio e San Lorenzo, magari si spingono fino in centro, e poi tornano per un piatto caldo”. “Io invece vengo dalla campagna”, ci tiene a informarci Nadir, un ragazzo che avrà a malapena vent’anni. E per capire cosa voglia dire basta spingersi poche centinaia di metri più avanti, su via dei Monti di Pietralata, e vedere con quale facilità un paio di suoi compagni aggirano delle transenne mezze divelte che delimitano un cantiere edile abbandonato, dietro cui s’intravedono i tetti di quelli che sembrano baracche o casolari malandati. E lì che torna anche Nadir, dopo aver consumato il suo pasto e aver raccolto un pallone di gomma dura rimasto a prendere acqua in fondo a una delle scalinate dei sottopassaggi. Le stesse che, per settimane, i rifugiati hanno utilizzato, per una bizzarra forma di autolesionistica protesta, come latrina a cielo aperto, e che gli operatori dell’Ama, per ripulire, hanno ricoperto con una passata recente di calce. Per qualche giorno, per qualche mese, anche questa durerà.